Ci troviamo da qualche parte, al Nord. In teoria nelle vicinanze di Crema, in realtà in uno di quei piccoli Eden dell’adolescenza, sospesi fra turbamento informe e gesto infantile, un attimo prima che diventino tempo perduto e coscienza della perdita, fra il sentiero dei biancospini di Combray e le forme immediate del sentimento – immerse in un’indefinitezza liquida che non si è obbligati a comprendere e spiegare – appena incrinate dai primi fantasmi impossibili.
Elio trascorre l’estate nella villa collinare dei genitori, sbrecciata e ammaliante come certe residenze di campagna descritte da Jane Austen, e circondata da un giardino che è un omaggio commosso a Casa Howard di James Ivory (autore della sceneggiatura). La luce pulviscolare si posa sui frutti rosso chiaro, sfumato di giallo, e sulle foglie stremate dalla canicola, ondeggia sulle increspature dei laghetti formati dall’acqua che discende dalle Alpi Orobie e ricoperti di minuscoli detriti vegetali. Giardino come simbolo di identità e appartenenza, radice profonda dell’essere, vita che scorre entro il cerchio infinito e sempre ritornante delle stagioni.
La governante Mafalda e l’anziano tuttofare/pescatore Anchise si aggirano protettivi negli spazi interni ed esterni: il frutteto, la zona dove, fra grandi alberi, viene consumata la colazione (succo di albicocche e altre delizie casalinghe), la cucina chiara con gli utensili di rame appesi alle pareti e la campanella per segnalare l’ora dei pasti, la biblioteca dove la famiglia si raduna per condividere il piacere della lettura (da Eraclito a Heidegger) o per ascoltare le vertiginose variazioni pianistiche di Elio.
Arriva in villa Oliver, studente americano che il padre di Elio, professore di archeologia, aiuterà nel corso dell’estate a sviluppare la tesi di post-dottorato. Fra brevi conversazioni e corse in bicicletta che fanno rivivere l’atmosfera impressionista di Une partie de campagne di Renoir, nonostante i toni schivi e a volte bruschi di Oliver, l’amicizia fra il giovane e l’adolescente progredisce. Le ragazze cui Elio a volte si accosta per una pulsione cieca del corpo diventano marginali, quasi moleste. L’immagine abbacinante di Oliver lo invade giorno e notte, assume la forma di un’ossessione nascosta e struggente, di un delirio meridiano, di un’estasi panica continuamente elusa. La sensibilità di Luca Guadagnino sta nel comporre un’opera indimenticabile sul desiderio tout court e non su una storia d’amore omosessuale. Sul desiderio nell’adolescenza – l’età del dubbio, la più vulnerabile -, quando ancora non si sanno decifrare i segni del mondo e i segnali dell’altro, e prevale il timore del rifiuto, l’imbarazzo del possibile malinteso, la paura di perdere quel poco che si è ottenuto. Si tace per non essere respinti, finché la passione non rompe ogni diga.
Oliver diventa agli occhi di Elio l’incarnazione della classicità, di un ideale di Bellezza che pensava esistesse solo nell’arte. Quando in fondo al lago di Garda viene ripescata una statua della scuola di Prassitele questa sovrapposizione si accentua. I corpi, nella scultura ateniese, non seguono linee rette, si mostrano sinuosi come se ci sfidassero a desiderarli. Così, la figura perfetta di Oliver – adduttori ginocchia vasti volto capelli – arriva a trascendere nell’elaborazione amorosa di Elio, a sciogliersi da lacci troppo terreni e da ogni morbosità.
Come ci appare naturale l’appagamento erotico che Elio, un pomeriggio, in soffitta, bagnato di sole, cerca nella polpa gocciolante di una pesca enucleata del nocciolo, ci sembra esemplare la discrezione partecipe e affettuosa, illuminata, con la quale i genitori del ragazzo seguono le piccole tracce della storia amorosa del figlio. Amore che infine scoprirà ricambiato, e aprirà le porte di una conoscenza carnale trascinata dal regista e dagli ammirevoli interpreti (in particolare Timothée Chalamet) verso la ricerca dell’assoluto – forse in questo caso trovato -, in equilibrio fra lotta e abbandono, scontro e fusione, disperazione e gioia.
Alla fine dell’estate Oliver riparte per gli Stati Uniti. Fra i due giovani, durante l’amara, asciutta cerimonia dei saluti, sembra insinuarsi la promessa inespressa di ritrovarsi, comunque, in un futuro assai prossimo. Ma, come cantava Danielle Darrieux – Grande Dame del cinema francese scomparsa l’anno scorso – nel finale di “8 femmes” di Ozon, il n’y a pas d’amour heureux. In pieno inverno, Oliver telefona alla famiglia, ancora una volta riunita in villa, per annunciare il proprio imminente matrimonio. Elio si stringe in sé stesso per ripararsi dall’urto del dolore improvviso e ulcerante.
titolo originale | Call Me by Your Name |
genere | drammatico |
anno | 2017 |
nazionalità | Italia/Francia/Brasile/Usa |
cast | Timothée Chalamet, Armie Hammer, Michael Stuhlbarg, Amira Casar, Esther Garrel, Victoire Du Bois, Vanda Capriolo |
regia | Luca Guadagnino |
distribuzione | Warner Bros. |
durata | 132′ |
produzione | Frenesy Film Company |
sceneggiatura | James Ivory, Luca Guadagnino, Walter Fasano |
fotografia | Sayombhu Mukdeeprom |
scenografie | Samuel Deshors |
montaggio | Walter Fasano |
costumi | Giulia Piersanti |
musiche | Sufjan Stevens |