Era il 26 febbraio del 2003. Con un assalto al quartier generale dell’esercito del Sudan a Golo, nel distretto del Jebel Marra, il Fronte di Liberazione del Darfur sferrava il primo attacco pianificato contro una postazione militare strategica del Governo del presidente Omar Hassan Al Bashir.
Iniziava così, ufficialmente, la guerra nella regione occidentale sudanese che a 15 anni dal primo atto significativo del conflitto che ha causato la morte di oltre 300 mila persone non sembra destinato a conoscere la parola pace.
Ieri, come ogni anno il 26 febbraio, Italians For Darfur, associazione no profit che dal 2006 porta avanti una campagna di sensibilizzazione su questa crisi umanitaria dimenticata, ha pubblicato il rapporto annuale su Sudan e Sud Sudan, realizzato in collaborazione con Unamid, la missione Onu – Ua dispiegata sul terreno dal 2008.
Quest’area, grande quattro volte l’Italia, è stata ed è tutt’ora teatro di scontri tra fazioni contrapposte per l’accaparramento delle risorse dell’area e come capita in tutti i conflitti a pagarne le conseguenze peggiori è la popolazione civile.
Nonostante nel Mondo non manchino nuovi e continui fronti di crisi, quella in atto in Darfur resta la più vasta e longeva con circa 2 milioni e mezzo di sfollati.
Nel 2017, seppure non ci siano state operazioni militari ufficiali delle forze del Governo del Sudan contro i gruppi armati del Darfur, gli scontri non sono mancati e hanno coinvolto le Rapid Support Forces, milizie filogovernative pesantemente armate e arruolate da Khartoum, ufficialmente per contrastare un possibile aumento del flusso di migranti irregolari ma di fatto impiegate nel contrasto alla ribellione ancora molto attiva in gran parte della regione.
Sotto il profilo umanitario la situazione appare incancrenita e con la possibilità della sospensione della missione di peacekeeping che opera su tutto il territorio darfuriano le prospettive per la popolazione sfollata appaiono sconfortanti.
All’inizio, quando era stata dispiegata nel dicembre del 2007, la missione contava 26 mila caschi blu. Con la risoluzione 2063 del 31 luglio 2012, il Consiglio di sicurezza ha deciso di ridurre la forza delle componenti militari e di polizia portandole a poco più di 23 mila, 19.248 soldati e una componente civile di 4.495 peacekeepers (1.185 membri dello staff internazionale, 340 volontari delle Nazioni Unite e 2.970 membri del personale nazionale).
I bisogni più acuti sono stati riscontrati in tutta la regione del Darfur, ma anche negli Stati del Nilo Azzurro, del Sud Kordofan, oltre che nel Sudan orientale e altre aree dove non si registrano fronti aperti di conflitto.
L’esigenza degli aiuti umanitari, secondo il rapporto, è amplificata anche dalla povertà, dal sottosviluppo e dai fattori climatici che caratterizzano l’intero Stato.
La priorità del coordinamento degli aiuti in Sudan è di assicurare che le persone bisognose ricevano l’assistenza salvavita immediata e la protezione cruciale per la loro sopravvivenza. Tuttavia, dopo oltre un decennio, gli sforzi per rafforzare l’autosufficienza delle persone colpite dalla crisi, non sembrano produrre risultati in tal senso.
Nel 2017 OCHA, l’agenzia delle Nazioni Unite per il coordinamento degli aiuti umanitari, ha prestato assistenza a 4,8 milioni di persone, tra cui 3,1 milioni nel Darfur. Altrettanti sono state aiutate sotto il profilo alimentare e hanno ricevuto il sostentamento minimo quotidiano, mentre 2,2 milioni di bambini sotto i cinque anni sono a tutt’oggi malnutriti. In tanti, nelle aree inaccessibili ai cooperanti non ricevono alcun aiuto.
Nel distretto del Jebel Marra, dove all’inizio del 2016 è scoppiato un nuovo conflitto, l’accesso e l’assistenza umanitaria sono pressoché inesistenti, in particolare nelle zone controllate dall’Esercito per la Liberazione del Sudan (SLA) dove migliaia di persone sono abbandonate a loro stesse. L’instabilità intorno ai confini del Sudan, aggiunge, un ulteriore carico umanitario con migliaia di sfollati in cerca di asilo e rifugio nel Paese.
Dopo lo scoppio del conflitto nel Sud Sudan, nel dicembre 2013, si è registrato un flusso costante di sud sudanesi. Tra il dicembre 2013 e l’inizio del 2017 quasi 500.000 rifugiati sono arrivati in Sudan.
Sebbene questi ultimi possano muoversi liberamente all’interno del Paese e stabilirsi in qualsiasi area, la maggioranza ha chiesto asilo nei campi profughi nello Stato del Nilo Bianco, altri nel Darfur Est.
Appare paradossale che in uno scenario regionale di conflitti interni e crisi umanitaria cronica, vi sia un flusso continuo di sfollati e migranti provenienti dalla Repubblica Centrafricana, dal Ciad, dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Siria e persino dallo Yemen.
Ma la disperazione e la vastità delle crisi non favoriscono mai logiche e ancor meno soluzioni razionali.
Il 2017 e i primi mesi del 2018 in Sudan sono stati caratterizzati anche da un’intensificazione della repressione della libertà di stampa con continui arresti di giornalisti e sequestro di copie dei giornali ‘responsabili’ di aver pubblicato notizie avverse al Governo.
Gli ultimi fermi gli scorsi 16 e 17 gennaio, quando i Servizi Segreti e di Sicurezza Nazionale (NISS) hanno prelevato separatamente sette giornalisti mentre erano in piazza per raccontare le proteste contro l’inflazione, che ha portato a un aumento esponenziale di viveri di prima necessità, nella capitale Khartoum.
A finire in carcere Magdi al-Ajib del quotidiano locale al-Watan, Rishan Oushi del quotidiano locale Mijhar al-Siyasi, Imtenan Al-Radi del quotidiano locale al-Youm al-Tali, Amal Habani, giornalista freelance, Shawky Abdelazim, direttore di al-Youm al-Tali , Khalid Abdelaziz, corrispondente del Sudan di Reuters e Abdelmunim Abudris, corrispondente di AFP.
La settimana precedente erano finiti in carcere già tre giornalisti Haji Abdelrahman El Moz, del quotidiano Akhbar El Yowm, i freelance Kamal Karrar e Amal Habani che avevano raggiunto in cella Ahmed Jadein, del quotidiano di El Jareeda, primo giornalista di questa tonata a finire in carcere mentre seguiva la protesta pacifica a Khartoum del 31 gennaio.
Nel primo mese del 2018, le autorità sudanesi hanno confiscato più di un’edizione di almeno quattro giornali.
La Rete dei giornalisti sudanesi ha diffuso, all’indomani della nuova ondata di repressione della libertà di stampa da parte del Governo, una nota in cui non solo condannava gli arresti ma manifestava grande preoccupazione per possibili interrogatori con metodi coercitivi.
Sono infatti filtrate notizie di almeno due casi di violenze nei confronti di Habani e del corrispondente di El Midan Karrar. Entrambi sarebbero stati colpiti con dei bastoni elettrificati alle mancate risposte alle domande degli ‘inquisitori’.
Il Sudan è tra i Paesi in fondo alla classifica del World Press Freedom Index di RSF, attualmente 174° su 180.