di Franco La Torre
Giuseppina Zacco, mia madre, aveva conosciuto Pio proprio in quegli anni, la fine dei ’40.
Il 29 ottobre 1949, giorno della strage di Melissa, annota mio padre, lo aveva sposato e con lui aveva condiviso le lotte contadine: il loro autentico viaggio di nozze, durato una stagione, durante la quale – ma potrei sbagliarmi – concepirono mio fratello, e non quei pochi giorni trascorsi a Capri, dopo il matrimonio, interrotti proprio dalla necessità di rientrare a Palermo per preparare l’imminente mobilitazione che avrebbe coinvolto migliaia di braccianti poveri della Sicilia nord-occidentale.
Mia madre sapeva chi era quell’uomo che, arrestato durante una delle manifestazioni, dove i contadini occupavano e seminavano simbolicamente le terre incolte, aveva scontato ingiustamente 17 mesi all’hotel Ucciardone, il carcere di Palermo, accusato di tentato omicidio e poi prosciolto per non aver commesso il fatto.
Mio padre e mia madre erano orgogliosi di quel periodo della loro vita; si capiva, da come ne parlavano, che non era stato facile e aveva richiesto capacità di misurarsi con prove impegnative, grandi sforzi e sacrifici per due giovani, poco più che ventenni, che stavano mettendo su famiglia proprio mentre partecipavano attivamente al movimento di liberazione dall’oppressione semifeudale e per l’affrancamento dalle condizioni di sottosviluppo delle masse povere siciliane.
Raccontavano della dignità della gente che li accoglieva, anche per settimane, nelle loro misere abitazioni, che non si potevano definire case.
Non era raro che dormissimo sulla paglia nelle stalle, insieme agli animali – ricordava mia madre.
Ma la stalla era, comunque, un lusso che non tutti si potevano permettere – aggiungeva mio padre – e capitava che dormissimo nell’unica stanza, insieme alla famiglia che ci ospitava e alla loro capra – concludeva mia madre. Il partito non aveva a disposizione tutti i mezzi necessari. Si partiva da Palermo, sapendo che si sarebbe stati fuori per giorni. Venivamo lasciati nei paesi, dove avremmo incontrato i contadini e organizzato con loro le manifestazioni, spostandoci a piedi o con i mezzi disponibili in loco, carretti, muli, biciclette e qualche rara motocicletta.
Mio padre, in quell’inverno del ’49-‘50, in attesa dei frutti della semina, era impegnato nell’organizzazione della ripresa delle lotte in primavera. L’obiettivo era conservare il diritto di raccolta sui terreni seminati, nella consapevolezza che il vero ostacolo era l’opposizione dei proprietari agrari.
Alle prime luci del giorno del 10 marzo 1950, a Bisacquino, centro agricolo della provincia di Palermo, un corteo di contadini, lungo tra i quattro e i cinque chilometri, stava lasciando il paese e mio padre era con loro. Cinque – seimila contadini andavano a misurare i terreni incolti e li lottizzavano: un ettaro a testa. Uomini e donne. Tante donne, alcune a cavallo, in testa al corteo, e tante bandiere: quelle rosse del PCI, le bianche della DC e quelle della CGIL. Doveva rientrare a Palermo con la corriera delle tre del pomeriggio ma la perse. Allora decise di andare incontro ai contadini che rientravano dal fondo occupato. Giunse in vista del corteo, si scorgevano le bandiere e si udivano i cori delle donne ma vide, anche, arrivare una colonna di automezzi carichi di poliziotti e carabinieri.
Si rese conto che Vicari, il prefetto di Palermo, aveva messo in atto le minacce di repressione e aveva dato ordine di organizzare una vera e propria imboscata. Era già successo nei giorni addietro. Mio padre decise di andare a parlare con i dirigenti della colonna. Riconobbe, tra questi, il tenente Panzuti dei carabinieri di Bisacquino, una persona ragionevole, con cui aveva trovato un’intesa nei giorni precedenti, ma questi, con lo sguardo chino, lo indirizzò al commissario capo dottor Panico.
Mio padre ricordava il commissario Panico in evidente stato di agitazione mentre, senza dargli il tempo di parlare, stava ordinando a uno degli ufficiali di togliere quello “sconcio di bandiere”. Un gruppo di carabinieri si avvicinò alla testa del corteo e tentò di strappare le bandiere dalle mani delle donne. Queste reagirono con vigore e ne nacque un tafferuglio.
Partì una sassaiola verso i carabinieri e il commissario Panico diede ordine di sparare. I contadini si dispersero e rimase a terra il bracciante Salvatore Catalano. Un proiettile lo aveva colpito alla spina dorsale, rendendolo invalido per tutta la vita. Mio padre andò a trovarlo ogni volta che poteva e finché ha potuto. Gli scontri ripresero e si svilupparono con violenza. Mio padre raccontava di aver impedito ad un gruppo di contadini di uccidere a colpi di pala un carabiniere.
Un maresciallo di polizia era stato catturato, gli era stata tolta la pistola e stava per essere denudato, se mio padre non fosse intervenuto e avesse convinto i contadini a restituirgli la divisa e a liberarlo. Mantenendo la necessaria lucidità, si rivolgeva con autorità ai contadini dicendo loro che carabinieri e poliziotti non erano i loro nemici; mentre lo erano i grandi proprietari terrieri, i nobili latifondisti, che volevano la repressione e lo scontro. Il suo comportamento fu fondamentale per evitare che i contadini uccidessero o mutilassero gli agenti. Le cariche della polizia continuavano.
Mio padre venne fermato, insieme a centinaia di contadini, e fatto salire su un camion. Giunse ammanettato nella piazza di Bisacquino, quando su quel camion salì un tenente di polizia, che fece accendere le luci e, puntandogli il dito contro, lo accusò di averlo colpito con un bastone. Alla smentita di mio padre, il tenente gli sputò addosso e ordinò che gli venissero strette le manette. L’accusa era tentato omicidio.
(4 – continua)