di Klaus Davi
La ‘Ndrangheta, tra tutte le associazioni mafiose e criminali, è quella con la più forte attitudine ontologica alla riservatezza, da sempre. Si tratta di una questione, non solamente formale, ma sostanziale. Infatti, delle oltre settecento regole non scritte che compongono il “Talmud” della ‘Ndrangheta, il vincolo al riserbo è forse quello più ossessivamente ricorrente.
La mania per la privacy dell’agire dell’uomo d’onore non si circoscrive solo alle attività criminali, ma coinvolge tutta la sfera dell’essere ‘ndranghentista nelle sue articolazioni: il linguaggio, i rapporti interpersonali, la narrazione della propria vita, la sessualità, e – va da sé – l ‘organizzazione dei nuclei malavitosi. E forse non è un caso che, proprio in virtù di questa riservatezza, la ‘Ndrangheta abbia trovato punti d’incontro, diciamo cosi, naturale con istituzioni improntate alla segretezza come la massoneria.
Questa peculiarità – a dire il vero non specifica della mafia calabrese – ma che in essa rasenta elementi patologici, ha caratterizzato per moltissimi decenni l’identità socio-culturale dell’affiliato made in Calabria o quanto meno dell’immagine che si voleva dare. E il costo di tanta impalpabilità non è stato secondario visto che sull’altare della segretezza e dell’omertà sono stati sacrificate centinaia di vite umane, come ben risaputo.
Le cose, probabilmente, non sarebbero cambiate se, con l’avvento della generazione digitale, anche le generazioni espressione dell’ideologia ‘ndranghentistica non avessero sentito l’esigenza di misurarsi con questi linguaggi. Venendo cosi progressivamente e inaspettatamente meno, anche se in forme diverse, a quella che era una ‘linea guida’ della tradizione familiare.
La svolta credo sia identificabile con la comparsa sul mercato della comunicazione dei cosiddetti social network. Tutti i più grandi rampolli dei casati di ‘Ndrangheta hanno un rotto con la tradizione ancestrale del basso profilo, avvertendo l’esigenza di misurarsi con questa nuova dimensione. E i nomi scesi in campo sono importanti: da Domenico a Giovanni Tegano, da Giuseppe Pesce a Vincenzo Torcasio, dai piccoli De Stefano fino a contaminare i potentissimi Piromalli di Gioia Tauro.
Non che tra i vari ‘brand’ ci sia uniformità di stilemi comunicativi. L’utilizzo dello strumento social cambia da famiglia a famiglia. Muta a seconda delle esigenze che possono essere frutto di aspirazioni meramente sociali fino a rasentare il proselitismo. Molteplici sono gli usi del mezzo social da parte di questi personaggi. In primo luogo c’è quello di carattere personale-politico: la propria pagina diviene uno strumento per esibire e ostentare uno status sociale, correlata di foto, viaggi, serate nei locali, belle ragazze, vestiti e orologi di marca. Un utilizzo ‘socialite’, per intenderci, atto a ribadire la propria supremazia gerarchica sintetizzata dal ricorso a status symbols degni dei Corona dei tempi d’oro.
C’è stato anche chi però si è spinto oltre. Fra questi Giovanni Tegano, nipote dell’omonimo boss che traghettò Reggio Calabria fuori dalla guerre di mafia tanto da passare alla storia come “uomo di pace”. Giovanni Tegano junior per alcuni anni almeno si distinse per una declinazione dei social parecchio disinvolta.
Se ne accorse casualmente chi scrive, in una calda notte di agosto del 2016.
Cosa faceva il promettente ragazzo? Postava immagini di revolver ultima generazione, aizzava i propri coetanei contro gli sbirri, auspicava che i pentissero facessero una brutta fine, e inneggiava a chi affrontava il carcere in silenzio.
Un delirio episodico? Non proprio. Vincenzo Torcasio, trentenne pupillo dell’omonima famiglia di Lamezia Terme, ebbe la brillante idea di aprire una pagina facebook per attaccare, a suo dire, la mala giustizia. Un crescendo di post e immagini che mettevano sul banco degli imputati i giudici che, strumentalizzando falsi pentiti, schiaffavano – a suo dire – in galera persone innocenti, colpevoli solo di portare cognomi discussi. Un crescendo di invettive che ebbe fine con l’arresto dello stesso Torcasio, che per forza di cose dovette rinunciare alla ‘mission’ digital- anti giustizialista che si era dato.
Mai però come il venticinquenne Emanuele Mancuso, ideatore del sito ‘Intoccabili autorizzati a delinquere’ che fu chiusa dalla Polizia Postale a seguito dei suoi espliciti e reiterati attacchi contro alcuni giornalisti e contro membri dell’associazionismo antimafia. Anche qui ci pensò la Polizia Postale a mettere la parola fine.
Un discorso a parte meriterebbero quei siti usati dai mafiosi per mandare messaggi in codice. Rimarchevole l’esempio di due ragazzi appartenenti alle famiglie Tegano e Condello di Reggio Calabria, ritratti a piu riprese intenti a scolarsi una bottiglia di champagne in qualche discoteca di Archi. Un sequel di selfie di per se innocuo, che per i conoscitori e gli addetti ai lavori adombrava profondi significati. Considerando che i loro genitori si erano scannati fino a quindici anni prima, la ‘photo opportunity’ fu intepretata come segnale chiaro: basta guerre, ora marciamo uniti.
L’ultimo inquietante e paradossale incrocio fra giovane ‘Ndrangheta e social networking risale a poche settimane fa. Una gang di ragazzi operante in provincia di Reggio, denominata ‘Cumps’ (tradotto in soldoni: forza e violenza), si è distinta perché Facebook era diventato un canale quasi palese per pianificare estorsioni, ricatti e sistematiche aggressioni. Una strategia un po’ troppo criminalmente rozza, se si considera che gli ordini delinquenziali impartiti tramite emoticon e likes si facevano di giorno in giorno più espliciti e quindi facilmente identificabili da parte delle forze dell’ordine. Le quali infatti li usarono per ricostruire la filiera criminale di questi mafiosi in erba.
Resta da capire ora se l’avvento dei social determinerà una mutazione genetica dell’identità della mafia calabrese del terzo millennio. Ovvero fino a che punto essa si ‘camorrizzerà’ come dicono i sociologi, ossia muterà i linguaggi da nouveau riche del gangsterismo partenopeo per abbandonare la tradizione dell’understatement, o se invece la tecnologia sarà l’ ennesimo strumento attraverso cui la mafia più potente sarà in grado di ribadire la propria supremazia. La questione è aperta e non sarà di immediata soluzione.
(Ha collaborato Alberto Micelota)