Per Mahmoud Abu Zeid, detto Shawkan, il 2018 è iniziato com’era finito il 2017: con l’ennesimo rinvio, il quarantaseiesimo, del maxi-processo iniziato il 12 dicembre 2015 al Cairo, in cui è l’unico giornalista su 739 imputati. Dopo i tre rinvii di gennaio (il 13, il 27 e il 30), se ne riparlerà il 4 febbraio. Shawkan è stato arrestato il 14 agosto 2013 mentre si trovava, per conto dell’agenzia fotografica Demotix di Londra, in piazza Rabaa al-Adawiya, al Cairo, a documentare il violentissimo sgombero di un sit-in della Fratellanza musulmana. Fu un massacro con centinaia e centinaia di morti in un solo giorno.
Shawkan rischia una condanna all’ergastolo per questo lungo elenco di pretestuose accuse: “adesione a un’organizzazione criminale”, “omicidio”, “tentato omicidio”, “partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane”, “ostacolo ai servizi pubblici”, “tentativo di rovesciare il governo attraverso l’uso della forza e della violenza, l’esibizione della forza e la minaccia della violenza”, “resistenza a pubblico ufficiale”, “ostacolo all’applicazione della legge” e “disturbo alla quiete pubblica”.
Il suo “reato” è solo quello di aver fatto il suo lavoro. Si chiama giornalismo.