Fino al 1870 il nazionalismo era stato il principio ispiratore dei movimenti per la liberazione, ma con il tempo assunse forme sempre più radicali e tradizionaliste, collegate a teorie razziste che miravano a riaffermare la supposta superiorità. In tale contesto, in reazione all’antisemitismo, nacque il sionismo quale movimento volto a restituire alle popolazioni del mondo un’identità e promuovere la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina. Dopo la II guerra mondiale molti paesi ottennero l’indipendenza dal dominio coloniale. Iraq, Egitto, Yemen, Arabia Saudita, Libano, Transgiordania e Siria formarono la Lega degli Stati Arabi con scopi di cooperazione.
Nel 1948 Israele formò il suo Stato, senza però curarsi delle tensioni nate tra palestinesi ed ebrei, fin da quando le comunità israelite erano arrivate in Palestina sotto il mandato britannico. A nulla servì la spartizione in due Stati operata quello stesso anno dall’Onu, respinta dagli arabi che non ne riconobbero la legittimità. Ci fu un momento in cui l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) sotto Yasser Arafat era disposta a negoziare con Israele e riconoscere il suo Stato a patto che decidesse di ritirarsi dai territori occupati. Israele però rifiutò e nel 1987 i palestinesi invocarono la prima Intifada, una lunga rivolta contro gli occupanti. Ciò che seguì, a partire dal processo di Norimberga e alla I guerra del Golfo, ha molto a che fare con il presente.
Il 6 dicembre scorso, il Presidente americano Donald Trump ha annunciato che avrebbe spostato l’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendola implicitamente come capitale dello Stato. “È ora di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, è l’inizio di un nuovo approccio al conflitto israelo-palestinese. Israele è uno stato sovrano che ha il diritto, come ogni altro Paese, di decidere la sua capitale. Essere consapevole di questo è una condizione necessaria per raggiungere la pace”, aveva dichiarato Trump indignando il mondo, facendo entrare in vigore, di fatto, una legge statunitense che aveva deciso di riconoscerla come Capitale già nel 1995.
Donald Trump non è un Presidente particolarmente carismatico, ma ciò non gli ha impedito di prendere una decisione, fino ad allora rimandata, che peserà indubbiamente sull’asse geopolitico. Paradossalmente più il rapporto con i suoi alleati è scadente, più si rafforza il suo potere. La politica intrapresa dagli Stati Uniti nel corso dei secoli e il ruolo che ricopre, lo pone in una posizione di vantaggio rispetto alle altre potenze mondiali. Ad oggi gli Stati Uniti sono influenti, senza bisogno che lui si impegni per diventarlo. Si sentirà perciò legittimato a comportarsi come leader autoritario non considerando le obiezioni contrarie di Onu e paesi arabi.
Il 20 dicembre scorso le Nazioni Unite con un’assemblea generale che ha riunito gli stati membri ha votato con 128 voti a favore (pur non vincolante) contro la decisione di Trump, rincuorando Abu Mazen che la comunità internazionale sia con la Palestina. Mentre dalla parte degli Usa, oltre al fedele Israele, per il momento si è schierato solo il Guatemala, anche se gli analisti credono che Honduras, Slovenia, Ungheria e Romania potrebbero seguire il capo a stelle e strisce. Colui che ha, nel frattempo, deciso anche di tagliare una parte dei finanziamenti destinati alle Nazioni Unite, da sempre da lui considerate “un club triste che ha sprecato le sue potenzialità”.
Una decisione tutta politica
Il fatto che Israele e Palestina non siano mai riuscite a trovare una soluzione comune ma anzi abbiano continuato a screditarsi tra loro, ha sicuramente rafforzato la posizione di Trump che, anche se ha dichiarato che questa sarà “la condizione necessaria per raggiungere la pace”, di fatto ora ha portato solo a un ennesimo scontro tra l’esercito israeliano e i palestinesi provocando un migliaio di feriti. Per i palestinesi, infatti, è stata interpretata come un’altra occupazione, sullo sfondo dei festeggiamenti di Netanyahu, a cui la rabbia di Hamas ha risposto invocando una terza Intifada.
C’è chi pensa che le motivazioni che abbiano spinto Trump in questa direzione siano legate all’inchiesta russa, il cosiddetto Russiagate, l’ingerenza del Cremlino durante la campagna elettorale del 2016, ovvero che Putin avesse sostenuto Trump screditando Clinton, l’avversaria. L’inchiesta ha poi trovato in Paul Manafort il capro espiatorio e tutto, compreso il consenso, si è sgonfiato. Così, per riprendere la credibilità, si dice che The Donald possa aver deciso su Gerusalemme per mantenere la promessa con l’elettorato. O almeno una piccola parte di esso, minore ma non meno importante, quella composta dai protestanti americani, anche detti “sionisti cristiani” la cui teoria sarebbe legata alla profezia biblica che vedrebbe Cristo tornare sulla terra solo quando Israele “avrà recuperato le sue frontiere divine con Gerusalemme come capitale”. Con il loro assenso Trump è libero di continuare il mandato senza pressioni.
Stati Uniti e Israele sono un duo imperfetto con un atteggiamento uniforme che mira al potere tutt’altro che ambiguo, condividendo la condizione morale del denaro quale simbolo della modernità.
La risposta al conflitto israelo-palestinese è stato chiaro a tutti fin dall’inizio, come ha sottolineato nei suoi colloqui il linguista e politologo americano Noam Chomsky: “Deve esserci un accordo che sancisca l’esistenza di due stati”. Tutti d’accordo, tranne USA e Israele appunto. Eppure, è solo riconoscendo reciproco diritto di autodeterminazione che potrà svolgersi il processo di pace che, invece, è tuttora bloccato dalle risorse petrolifere presenti in Medio Oriente. Israele, andando contro i palestinesi, in questo caso ricopre un ruolo quasi complice con gli Usa che comunque sanno ripagare il favore all’occorrenza. La pace è in pericolo, perché senza la guerra Israele non avrebbe alcun valore per gli Usa e allora, intuendolo, ha praticamente segregato i palestinesi nei settori più poveri, tra Cisgiordania e Striscia di Gaza, per non permettere loro alcuna forma di ribellione né di democrazia. Possibilità di pace ancor più sottratta all’inizio del nuovo anno, quando il partito di Netanyahu, il Likud, ha votato per acclamazione un documento che permetterebbe a Israele di annettere gli insediamenti ebraici della Cisgiordania, mettendo a repentaglio l’esistenza stessa della Palestina.
Il modo che hanno tutti questi leader e forze mondiali di occuparsi degli altri senza veramente curarsi di loro, non fa che amplificare le differenze. Invitare alla moderazione dopo aver creato il caos non sembra essere una buona idea, soprattutto se si è sempre pensato al contenimento piuttosto che alla mediazione.