Come spesso accade con le iniziative insidiose, la partenza è lenta e accomodante. Così, nasce un piccolo osservatorio sull’informazione giudiziaria nel circondario giudiziario di Modena, provincia che è impossibile catalogare come “calda” o a rischio, ma che da qualche tempo ha cominciato a contare (o a scontare) importanti processi per reati gravi e quei processi sono stati seguiti con grande attenzione dai giornalisti come impone loro la deontologia professionale oltre che la passione. L’Osservatorio della Camera Penale di Modena sull’informazione giudiziaria è stato presentato solo come uno “strumento utile, anzi necessario, a monitorare i meccanismi della comunicazione su base locale per misurarli alla luce dei principi costituzionali”. E’ stato specificato altresì che nessuno ha voglia di intimidire chicchessia. Parole encomiabili, così convincenti che nel giro di qualche giorno anche la Camera Penale di Reggio Emilia ha deciso di istituire un osservatorio analogo. Già Reggio Emilia, la sede giudiziaria del processo Aemilia, il più delicato e importante sulla penetrazione della ‘ndrangheta in quel territorio.
Perché è diventato improcrastinabile e inevitabile “osservare” il lavoro dei giornalisti e solo dei giornalisti di giudiziaria, specialmente se seguono processi di mafia e corruzione o dei due reati messi insieme, che – va ricordato – sono la vera piaga di questo Paese?
Succede che per anni, ogni giorno, i cronisti, facendo semplicemente il loro lavoro, scrivano di reati comuni: rapine, omicidi, usura, estorsione, violenze. Poi capita che la cronaca cambi e che ci si trovi a scrivere di mafia dove nessuno ha interesse ad ammettere che ci sia, o che la mafia ha rapporti con pezzi della politica e dell’economia. Il racconto di cronaca non cambia per i giornalisti. Ma cambia radicalmente per gli indagati. E, brucia dirlo, cambia per i loro avvocati. E’ successo in questi giorni in Emilia. Ma era già accaduto a Roma, quando per la prima volta la Procura aveva messo in piedi un’inchiesta per mafia nella capitale e i cronisti avevano avuto l’ardire di raccontare quell’inchiesta come se fosse una delle tante, ossia con la dovizia di particolari che merita un’indagine del genere, quindi incluse le intercettazioni telefoniche, le foto, i filmati, le perizie; tutto ciò che era nella disponibilità degli inquirenti e degli indagati è divenuto patrimonio dei lettori. Ed è così che un gruppo di iscritti alla Camera penale di Roma ha messo in piedi una denuncia collettiva contro 96 giornalisti (78 cronisti e 16 direttori), praticamente tutti coloro che si erano permessi di raccontare l’inchiesta giudiziaria denominata “Mafia Capitale”. La contestazione tecnica contenuta nella denuncia riguardava “la pubblicazione pedissequa in articoli di stampa di atti, o stralci degli stessi, di un procedimento penale in fase di indagine” in relazione al caso di Mafia Capitale. La pubblicazione pedissequa non è consentita dall’attuale legislazione. Vero è che per prassi quotidiana gli atti d’inchiesta vengono pubblicati in modo integrale senza che ciò abbia mai portato ad azioni così clamorose.
Non si può soprassedere, inoltre, su una ulteriore e amara considerazione: il nodo della riservatezza degli atti d’indagine e, complessivamente, delle attività istruttorie emerge e viene denunciato ogni volta che gli indagati hanno nomi e redditi eccellenti. Ogni giorno o quasi vengono violati dalla cronaca atti di indagini più o meno importanti. Scrivere che il medico x dell’ospedale della città y è indagato per truffa in danno del servizio sanitario è una violazione dell’indagine a suo carico. Riportare le intercettazioni telefoniche degli indagati per una tratta di immigrati posta in essere da loro connazionali senza scrupoli è una violazione del segreto istruttorio. Scrivere dell’arresto di un barista che deteneva cocaina nello sgabuzzino, parte per se stesso e parte per i clienti, è un’altra grave violazione dell’indagine e della privacy. Ma non risulta che gli avvocati (né i diretti interessati) abbiano sollevato il caso della “pedissequa pubblicazione”. Invece per gli atti giudiziari riferiti a Massimo Carminati e similari è successo, anzi succede sempre più spesso.
Adesso si è passati alla fase di studio del lavoro dei giornalisti, propedeutica alla censura è evidente, per quanto non sia dichiarato anzi formalmente escluso da chi fonda questi nuovi osservatori. Se le singole camere penali aprono osservatori non è un incidente, non si tratta di un’eccezione, bensì, più probabilmente, dell’evoluzione di un’altra iniziativa dell’Unione delle Camere penali italiane che nel 2016 hanno pubblicato un libro dal titolo assai esplicito. Questo: “L’informazione giudiziaria in Italia – Libro bianco sui rapporti tra mezzi di informazione e processo penale” a cura (appunto) del’Osservatorio giudiziario delle Camere Penali Italiane. Il contenuto è frutto di uno studio effettuato in collaborazione con l’Università di Bologna da giugno a dicembre 2015 e che prende in considerazione una serie di articoli di giudiziaria. Per chi ha letto questo volume, molto dettagliato, la conclusione è chiarissima: esiste un appiattimento della cronaca giudiziaria sulle posizioni della pubblica accusa e c’è un rapporto considerato troppo stretto tra giornalisti e pm. Molte le critiche e anche qualche suggerimento circa la necessità di tutelare il segreto d’indagine e la privacy.
Sono considerazioni sempre apprezzabili se l’obiettivo è davvero quello di migliorare il racconto delle inchieste e dei processi. Purtroppo il dubbio che si insinua nei giornalisti porta ad un’altra conclusione: c’è il tentativo di mettere un freno, diciamo pure un altro bavaglio, al racconto delle storie più scomode di questo Paese. Anche il richiamo alla tutela dei diritti costituzionali delle parti del processo non convince fino in fondo, perché non tiene in nessun conto, anzi neppure viene citato, l’altro articolo della Costituzione che garantisce i giornalisti (e i fruitori dell’informazione ossia tutti i cittadini), l’articolo 21. Ciò nonostante, una critica generalizzata ai penalisti italiani non sarebbe giusta perché la stragrande maggioranza di loro partecipa alla corretta divulgazione delle notizie di giudiziaria e, per altro verso, aiuta i giornalisti ad affermare il loro diritto-dovere di fare cronaca. Ma proprio perché gli avvocati sono i primi difensori dei diritti nel nostro ordinamento, non si può sottacere la gravità di iniziative come la nascita di Osservatori, una sorta di MinCulPop di nuova generazione. Chi crede davvero nella Costituzione non può e non deve declinarla in questo modo, usando escamotage eleganti per non chiamare le cose con il loro nome e dire “osservatorio” invece che “censura”. Non facciamone una questione formale, di vocaboli.