Un corto circuito. Parliamo di mafia come se fosse un soggetto e un linguaggio. Riprendendo il libro Io non taccio scritto a più mani da giornalisti di inchiesta, ho notato che la presenza dei nomi che associamo alle famiglie dei clan hanno nel tempo disonorato e macchiato quei nomi stessi. L’etimologia di mafia come di ‘ndrangheta, ha connotati regionali e si riferisce a balordi presuntuosi travestiti da uomini che, usando metodi illeciti, interferiscono nelle attività economiche, commerciali e sociali del luogo in cui transitano, mettendo a repentaglio senza scrupolo la vita di chiunque si metta tra loro e gli affari. E’ il caso di innocenti, giornalisti, magistrati, forze dell’ordine e loro stessi a causa di guerre per il territorio, come cani che marcano il suolo oltre ad abbaiare sparano.
Il quadro italiano, secondo la mappa interattiva consultabile grazie a “Il Fatto Quotidiano” e al Parlamento Europeo, vede quattro principali organizzazioni criminali muoversi sullo stivale: abbiamo la mafia, intesa come Cosa nostra in Sicilia, la camorra prevalente nelle zone campane di Napoli e Caserta, l’ndrangheta che dalla Calabria si è spostata anche al Nord in Lombardia, la pugliese Sacra Corona Unita. Tutte queste si occupano principalmente di spaccio di droga, riciclaggio, estorsione e infiltrazioni nell’economia, soprattutto tramite appalti pubblici e nel campo dell’edilizia privata. Inoltre ad operare con i clan principali abbiamo anche criminalità nigeriana, cinese e albanese. Il fatto che siano nate in certe regioni non li esenta dal trafficare anche in altri luoghi, grazie anche al sostegno con alcuni membri della politica. Non sembra essere un caso allora se il Bel Paese sia l’unico in Europa a dotarsi di una normativa ad hoc contro l’associazione di stampo mafioso, l’articolo 416 bis.
Rendere silenti le famiglie dei clan
Torniamo al linguaggio della mafia per riabilitare quei nomi. Dal libro di cui sopra, inizio dai Barbaro, facente parte all’ndrangheta calabrese molto presente in Lombardia, Piemonte, Germania e Australia. I Barbaro ben più importanti furono però quelli dell’alta aristocrazia veneziana che dal 1390 vantavano nel loro entourage vescovi, commercianti ed esploratori, come quel Nicolò che scrisse una cronaca sull’assedio di Costantinopoli nel 1453 al pari di Giosafat che ne scrisse sull’Asia. Che dire dei Papalia, ai Barbaro collegati per ‘‘ndrangheta, ma ben lontani nella Storia essendo stati estratti dalla nobiltà calabrese in principio legata, sembrerebbe, al marchesato di Saluzzo in Piemonte. Andando avanti troviamo i Brandimarte di Gioia Tauro e la faida aperta con i Priolo in quel di Vittoria in Sicilia, famiglie nella storia remota ben conosciute: i primi di origine medievale furono resi famosi dalle battaglie epiche francesi della Chanson de Roland e dal nostrano Ariosto nonché più di recente simbolo dell’artigianato e dell’argento a Firenze, la seconda dei Priolo invece abitante del Rinascimento veneto trovandosi un capo, un Doge, della Repubblica. In Sicilia, nel presente, vi è anche il clan mafioso dei Carbonaro-Dominante, appartenente alla Stidda una quinta organizzazione criminale operante soprattutto nelle province di Ragusa, Caltanissetta, Enna e Agrigento. Sì, ma i Carbonaro, come suggerisce il nome potrebbero derivare sia dalla Carboneria, quale società rivoluzionaria e liberale ottocentesca nata nel Regno di Napoli, sia dal carbonaio come mestiere di trasformazione della legna in carbone vegetale, Carbonaro-Dominante legato a Ventura, come il suo boss, cognome risalente al medioevo cristiano. Li conosciamo con questi cognomi che sembrano fare la Storia, ma la nostra Storia è un’altra.
Grazie a ‘la Spia’ sappiamo che: “Stidda e Cosa Nostra si dividono gli affari locali, la ‘Ndrangheta gestisce la cocaina e la Camorra (sarebbe più giusto parlare dei Casalesi) gestiscono i trasporti”. Casalesi, un altro nome balzato alle cronache a causa dei fatti e dei misfatti ad essi collegati e a Schiavone anche, il boss, derivante dagli slavi che seguita la rotta dei longobardi arrivarono dal fiume Natisone nel Friuli Venezia Giulia. Un’altra famiglia che ha infranto i valori della società civile è senz’altro la Bottaro-Attanasio, forte della sua prima origine di “fabbricante di botti” e della seconda dell’immortale che si è illuso di dare il nome a tutta la Sicilia greca che conta – tolte le persone perbene -, quella di Siracusa. Nonché i Corleonesi, sui quali ha avuto interesse persino l’industria del cinema producendo pellicole narranti di padrini più eroi che padroni. Una cosca formata all’interno di Cosa nostra negli anni Settanta e appoggiata dalle famiglie Liggio, Riina e Provenzano, il superficiale per origine, la mancata Regina e un Provenzano Salvani di Siena che un giorno rinvenne in una casa della Contrada della Giraffa e lì, meta di pellegrinaggio, una Madonna ancora porta il suo nome. Poi ci sono gli imprenditori Cavallotti che cercano invano di minare il radicalismo del primo Felice. Ai Corleonesi alleati i Cuntrera-Caruana, di Siculiana nella provincia di Agrigento e in principio campieri, ovvero guardie private al controllo di una tenuta agricola, nel 2013 seguendo le orme della Banda della Magliana si impadronirono, insieme ai fratelli Triassi, del litorale di Ostia. Triassi, d’origine una nobile famiglia spagnola che avrebbe guidato la conquista di Mallora, secondo le ultime cronache, avrebbe una certa comunanza (di complicità e rivalità) con i Fasciani e gli Spada. E a loro volta gli Spada e i Casalesi con i Casamonica, una famiglia dall’Abruzzo da tempo operante nella zona dei Castelli Romani, castelli senza più neanche un cavaliere. Dall’ndrangheta di Morabito, Logiudice e Musitano alla Sacra Corona Unita dei Giannelli-Scarlino: sconsolata la prima e più antica famiglia latina, la seconda di magistrati, la terza di predicatori e l’ultima non piena di virtù, ormai negate da famiglie con più facile collusione alla realtà. Infine, sempre in riferimento al libro di cui sopra, da Napoli i Mazzarella e i Giuliano, i primi una casata nobile del Cilento all’interno di cui si ricordano le gesta di valorosi uomini come quel Michele che difese Malta dai Turchi nel 1565, i secondi invece dalla Spagna trapiantati in Sicilia dal Re Federico III da Baldassarre, tale la potenza che lo stemma della famiglia ritraeva un leone con due rose a dimostrar forza e delicatezza, oggi anch’essa ormai sopita. Appare mitigata la bellezza in cambio dell’omertà, ma forse no, il faro è ora acceso