di Alessia Candito
Dice vecchia regola non scritta del mercato e del commercio: “Se non lo puoi superare, imitalo”. E la ‘Ndrangheta, a Reggio che è la sua capitale e nella Calabria che è il suo feudo, l’ha seguita alla perfezione. Fin dall’Ottocento, raccontano gli archivi, la nascente picciotteria calabrese – o “maffia” come appare in alcuni scritti – si è infilata dietro gli altari, sotto le statue in processione, nelle parrocchie e nelle canoniche, si è mischiata a flagellanti e si è nascosta nelle confraternite.
Alla ricerca di legittimazione, l’organizzazione nata nelle carceri borboniche che divideva con massoni “mangiapreti” e da questi ispirata, ha preso al cattolicesimo santi, simboli e liturgie per mischiarle ai propri rituali e giuramenti. Un modo per raccontarsi non in contrapposizione, ma in perfetta linea di continuità con quella religione che all’epoca era forse l’unica matrice di identità unica della sparpagliata popolazione calabrese. Risultato, un sincretismo criminale, a metà fra culto laico e santerìa meridionale, che ha trasformato i santuari in covi di ‘ndrangheta, santi e madonne in protettori di latitanti e i beati in patroni degli omicidi. Un’operazione perfettamente riuscita. E contro cui la Chiesa, quanto meno fino a qualche tempo fa, non ha certo fatto barricate.
Salvo qualche rara eccezione, nella storia del secolo breve, non risulta che la Chiesa in Calabria si sia spesso scagliata contro chi sui territori distribuiva pallottole con l’ecumenicità delle ostie durante la comunione. Innumerevoli latitanti si sono sposati davanti agli altari, hanno battezzato figli e allo stato non risulta che qualche boss sia morto senza il cosiddetto conforto dei sacramenti.
Di rado poi, sacerdoti e soprattutto vescovi si sono scostati quando i boss sgomitavano per farsi vedere accanto a loro in processione, nelle chiese o durante pubbliche liturgie. Una necessità per i capimafia, ansiosi di dimostrare di essere potere reale, in grado di confrontarsi – se non di controllare – il potere spirituale. Una comodità per una Chiesa che al sud era in primo luogo feudataria e grazie a quell’esercito informale spesso si sentiva protetta contro braccianti affamati di terre e il “pericolo rosso”.
C’è anche chi potrebbe anche aver perso di vista il confine fra le due organizzazioni. Così gli investigatori pensavano di don Stilo, potentissimo prete della Locride, grazie alla Dc “padrone” dei fondi per gli alluvionati di Africo, divenuti strumento per assicurarsi voti e anime, ma anche proprietario del collegio che ha regalato diplomi a più di un mafioso, in cui forse – dicono i pentiti – avrebbero soggiornato anche Luciano Liggio e Totò Riina.
Sotto gli occhi benevoli della Chiesa calabrese, che non si è scomposta neanche quando il suo sacerdote è stato arrestato e condannato (sentenza poi miracolosamente annullata), don Stilo per decenni ha incontrato boss e picciotti “per ragioni di apostolato”. Allo stesso modo, per decenni sembra si sia sviluppata una sistematica e generale miopia, che ha impedito a tonache di ogni grado di vedere che gli ‘ndranghetisti compravano i banchi delle chiese e ne finanziavano la ristrutturazione, che i portatori delle vare erano noti picciotti o che santi e madonne in processione si inchinavano di fronte alle case dei boss. Pratiche tuttora molto in voga.
Adesso però – quanto meno quando assurgono agli onori delle cronache – la Chiesa calabrese sembra reagire. Sorteggia e non mette all’asta i posti sotto la vara, rispedisce al mittente le offerte di imprese in odor di mafia, e non sembra più infastidirsi (troppo) per quei sacerdoti riottosi che si ostinano ad affrontare in prima linea i clan. Ma ancora inciampa in operazioni fin troppo cosmetiche. Quando è finito in manette don Pino Strangio, storico rettore di Polsi, santuario divenuto punto di riferimento mondiale della ‘Ndrangheta, la Chiesa calabrese si è affrettata a rimuoverlo dall’incarico.
Ma ancora oggi, che da imputato risponde di concorso esterno e violazione della Legge Anselmi sulle associazioni segrete, don Strangio è il parroco di San Luca, uno dei paesi della Locride a maggiore densità mafiosa, da cui il santuario di Polsi dipende. Certo sarà un processo a stabilire eventuali responsabilità penali, ma talvolta non è necessario attendere una sentenza per valutare l’opportunità di rapporti, comportamenti e frequentazioni. Al netto delle annunciate scomuniche papali, c’è ancora tanto lavoro da fare.