La società poi si è scusata e gliene va dato atto, per carità, ma nel tweet di commento di Trenord alla tragedia occorsa ieri mattina sulla tratta Cremona-Milano, all’altezza della stazione di Pioltello (in provincia di Milano), è racchiuso lo spirito del tempo. La società, infatti, in un primo momento ha annunciato l’interruzione della tratta fra Treviglio e Milano “a causa di un inconveniente tecnico”. Un “inconveniente tecnico”, capite? Tre donne morte, decine e decine di feriti e si parla di inconveniente tecnico.
Ora, nessuno pretende che un tweet o un comunicato stampa esprimano particolare passione sociale e civile ma magari un po’ meno di freddezza, un po’ meno di spirito burocratico e un po’ più di rispetto per la vita umana e il suo incalcolabile valore non avrebbero guastato.
E qui smetto ci occuparmi di Trenord e della vicenda avvenuta ieri e apro una riflessione sulle tragiche condizioni in cui io stesso, in qualità di pendolare, sono costretto a viaggiare quasi ogni giorno. Ma che Paese è quello in cui si investe uno sproposito di miliardi a favore dell’alta velocità e si lasciano le linee regionali in condizioni disperate? Che Paese è quello che premia i ricchi, i turisti e coloro che si muovono, per lo più, per svago a danno di chi è costretto ad usufruire dei mezzi pubblici per recarsi al lavoro? Che Paese è quello in cui si taglia su tutto ciò che è pubblico per favorire ossessivamente i privati? Che Paese è quello che non si pone il problema della qualità del lavoro, all’interno della quale rientra, senza dubbio, anche la raggiungibilità del medesimo in condizioni dignitose? Che Paese è quello che si è dimenticato l’uomo e domani, con somma ipocrisia, ricorderà il 27 gennaio, la liberazione di Auschwitz e quell’abisso di orrore senza porsi mezza domanda su quanto le persone vengano annientate quotidianamente anche alle nostre latitudini, nella nostra stagione falsamente civile e democratica? Ma soprattutto, è ancora un Paese questo? Ha ancora una storia, un’identità, un destino comune, un senso, una direzione di marcia, una classe dirigente all’altezza, dei manager non predoni e tutto ciò che distingue una Nazione da un insieme sconnesso di realtà locali in guerra fra loro?
Ha un futuro un Paese così? Come vedete, la questione va ben al di là della singola tragedia, che pure è solo l’ultima di una lunga serie e alla quale, purtroppo, ne seguiranno altre, in quanto non vedo i presupposti affinché le cose cambino, almeno nel breve periodo, almeno con questa classe dirigente, almeno con questi non partiti che ieri sono stati capaci di azzannarsi e di speculare persino su incidente ferroviario dalle conseguenze devastanti. Il punto vero è se abbia davvero senso indignarsi o far finta di stupirsi di fronte ai dati agghiaccianti relativi all’astensione e, in particolare, all’astensione giovanile. Io, come sempre, il prossimo 4 marzo andrò a votare: ci andrò perché lo considero un diritto ma, prima ancora, un dovere; ci andrò perché ritengo giusto onorare il sacrificio di chi per la democrazia ha dato la vita; ci andrò, infine, perché non ritengo affatto retorico compiere questi discorsi. Tuttavia, per la prima volta in vita mia, ci andrò senza riuscire a biasimare fino in fondo quanti preferiranno magari per la prima volta in vita loro, passare la mano. A questo siamo arrivati: ad un deficit di rappresentanza, di amore per il prossimo e di identità nazionale senza precedenti. A completare l’opera provvedono, poi, gli sciacalli da tastiera delle varie fazioni, famosi e non, i quali mi inducono a domandarmi cosa abbia fatto di male chi ogni mattina esce di casa alle 5, pieno d’amore per la sua famiglia e magari anche per il suo lavoro e i suoi colleghi, per meritarsi un trattamento del genere, per essere considerato un costo sacrificabile (da qui i tagli e la mancata manutenzione dei treni e delle linee ferroviarie: la leggendaria deregulation) e per essere derubricato, quando gli accade qualcosa di irreparabile, ad un “inconveniente tecnico”.