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Nessuna “nuova verità” sull’omicidio di Walter Tobagi

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Nei giorni scorsi è stato dato ampio risalto dai media ad una conferenza stampa tenutasi il 16 gennaio presso la sala Tobagi di Via Monte Santo. Poiché, per personale interesse storico, ero presente a quell’incontro, posso smentire che siano stati presentati “nuovi” documenti o “nuove verità” su quel delitto di 38 anni fa. Si è infatti parlato di una vicenda che risale al lontano giugno del 1983 quando ancora non si era concluso il processo avanti la Corte d’Assise di primo grado, denominato “Rosso-Tobagi”. Fu l’allora segretario del PSI, Bettino Craxi, a rivelare che un confidente avrebbe avvisato i carabinieri di quel futuro delitto con mesi di anticipo e qualche mese dopo l’allora Ministro Oscar Luigi Scalfaro produsse il documento che avrebbe attestato ciò. Si trattava di una nota informativa datata 13 dicembre 1979 in cui il carabiniere Dario Covolo notiziava il Maggiore Ruffino che una fonte confidenziale (di cui si omette il nome) gli aveva riferito di avere saputo dal militante Franzetti che un gruppo armato fino ad allora operante nella zona del varesotto aveva in progetto un attentato a Milano.
Nella nota di Covolo si legge che secondo il confidente poteva trattarsi di un vecchio obiettivo delle Formazioni Comuniste Combattenti risalente al 1978 e al quale lo stesso confidente, il cui nome era Rocco Ricciardi, aveva partecipato: il giornalista Walter Tobagi.

Il nome di Tobagi come possibile obiettivo era già emerso nel gennaio del 1979 in occasione del recupero di una valigetta riferibile ai Reparti Comunisti d’attacco, organizzazione armata collegata proprio a quelle Formazioni Comuniste Combattenti di cui aveva parlato Ricciardi. In quell’occasione fu proposta al giornalista una scorta che lui rifiutò, mentre di questa ulteriore segnalazione non venne fatta parola. Ora, posto che meno di sei mesi dopo Walter Tobagi verrà effettivamente assassinato e che meno di quattro mesi dopo gli inquirenti saranno in grado di individuare perfettamente l’organizzatore dell’attentato, Marco Barbone, il quale ai tempi aveva effettivamente militato insieme al confidente Ricciardi proprio in quelle Formazioni Comuniste Combattenti che già nel 1978 avevano preso di mira il giornalista, immediata fu la conclusione che non si era voluto impedire una morte annunciata.

A implementare la inevitabile ridda delle “dietrologie” contribuì anche la prima reazione degli inquirenti che negarono l’esistenza della nota di Covolo e che solo di fronte all’evidenza del documento furono costretti a spiegare come erano invece arrivati a individuare l’autore di quel delitto.

I documenti prodotti dalla Procura e dai carabinieri attestano che già il 5 giugno del 1980, e quindi pochi giorni dopo l’omicidio Tobagi, venne messa sotto osservazione l’abitazione di via Solferino, a pochi passi dalla sede del Corriere dove lavorava Tobagi, intestata a Caterina Rosenzweig. Costei era nota perché era già stata arrestata per l’incendio del 1978 alla Bassani Ticino compiuto proprio da quelle Formazioni Comuniste combattenti di cui aveva parlato il Ricciardi.

Ma costei era anche la fidanzata di Barbone, il quale invece era ancora persona incensurata, anche se gli inquirenti sapevano che fosse in contatto con la Rosenzweig, perché le aveva inviato alcune lettere quando lei si trovava in carcere. Siccome l’osservazione di via Solferino non produce risultati, sei giorni dopo, 11 giugno 1980, i carabinieri chiedono di intercettare le utenze telefoniche non solo della Rosenzweig, ma anche quelle di Barbone, Morandini, Montanari Silvana e Mari Stefano che risultavano in contatto con lei. Anche Paolo Morandini era con Barbone quando uccisero Tobagi, ma neppure le intercettazioni producono alcun risultato. Ma quello stesso giorno viene richiesta anche una perizia grafica “mirata”.

L’allora Pubblico Ministero Spataro racconta nel suo libro “Ne valeva la pena” che quasi subito ritennero, sulla base del testo di rivendicazione e delle modalità di recapito della Brigata 28 marzo, di ricercare i componenti tra i gruppi gravitanti l’area armata dell’autonomia milanese e in particolare di quello che negli ultimi mesi si era firmato Guerriglia Rossa.

Dice Spataro che fu il Maggiore Ruffino ad accorgersi che la grafia che compariva sulle buste di rivendicazione di Guerriglia Rossa era identica a quella che compariva in una rivendicazione di una vecchia rapina di via Colletta a Milano firmata dalle Squadre armate proletarie e che era stata reperita il 13 settembre del 1978 nella base delle Formazioni comuniste combattenti di via Negroli, in occasione dell’arresto di Corrado Alunni.

A quel punto, dice Spataro, si chiese di confrontare quei reperti con la grafia di una lettera inviata da Barbone alla fidanzata visto che ai tempi si trovava in carcere proprio per l’incendio alla Bassani Ticino la cui rivendicazione era stata trovata in quella stessa base delle FCC.

E quando a settembre L’espresso pubblicherà le dichiarazioni rese l’8 luglio dal generale Dalla Chiesa alla Commissione Moro e che anticipava che per l’omicidio Tobagi si stava indagando sulle FCC, l’esito positivo della perizia grafica indusse Spataro ad accelerare i tempi dell’arresto di Barbone per la rapina di Via Colletta per evitare che messo in allarme scappasse. La successiva scelta “collaborativa” di Barbone avrebbe quindi consentito l’arresto anche degli altri cinque della Brigata 28 marzo. Questa è la versione della Procura e dei carabinieri che si occuparono dell’indagine sull’omicidio Tobagi, successivamente confermata da Barbone e da Ricciardi  e sulla quale sono intervenute negli anni numerose sentenze passate in giudicato che hanno sempre condannato per diffamazione quelli che hanno insistito ad attribuire comportamenti dolosi o ambigui agli inquirenti.A latere vanno aggiunte ulteriori risultanze.

Rocco Ricciardi nel dicembre del 1979 era effettivamente un infiltrato dei carabinieri e lo era diventato quanto meno dal maggio del 1979 quando fece arrestare a Como quasi tutti i militanti delle FCC con cui era in contatto e avrebbe continuato ad esserlo anche dopo fino al novembre del 1981 quando anche lui verrà arrestato. Ricciardi ha dichiarato ai giudici di essere stato contattato dai CC subito dopo l’omicidio Tobagi e di avere quindi riferito agli stessi di avere appreso da un tale Marchettini che quel già citato Franzetti gli avrebbe detto che un tale De Stefano, persona che peraltro Ricciardi già conosceva, gli aveva detto di avere rapporti con quella Brigata 28 marzo che aveva rivendicato l’omicidio Tobagi.

Manfredi De Stefano, membro del commando che uccise Tobagi, e che nel 1984 morirà nel carcere di Udine per un aneurisma, nel 1980 aveva detto al PM che lo aveva arrestato di avere conosciuto per primi Morandini e Barbone tramite Enrico Pasini Gatti. Francesco Giordano, altro membro del commando, ha dichiarato ad Antonello De Stefano, fratello di Manfredi e che sta scrivendo un libro sulla vicenda, che prima di chiamarsi con la data dell’uccisione di quattro brigatisti a Genova, quello stesso gruppo si era già incontrato nel 1979.

Ha detto di averli conosciuti tramite Mario Marano (con il quale in precedenza aveva militato nell’organizzazione di Franzetti) e che insieme avevano compiuto due rapine di autofinanziamento, la prima a ridosso del natale del 1979 a Castelpalasio e la seconda nel gennaio del 1980. Ha tuttavia confermato che la proposta di un attentato a Tobagi gli venne fatta solo dopo il 28 marzo del 1980. Questi sono i fatti, ampiamente noti da anni e nessun nuovo documento è stato presentato a Milano.

All’incontro era presente il Giudice Guido Salvini, unitamente al giornalista Renzo Magosso, Antonello De Stefano e Francesco Giordano. Salvini ha esplicitamente escluso che vi siano stati “complotti” o irrisolti misteri “dietro” l’omicidio del giornalista, ma che vi sia stato piuttosto un maldestro tentativo di celare, dopo quell’omicidio, il fatto di non aver prestato attenzione a quella nota del 13 dicembre 1979.

Questo perché ritiene poco verosimile che senza la “soffiata” di Ricciardi (e quindi senza andare a recuperare quella nota) i carabinieri abbiano potuto, tra i tanti militanti dell’epoca, mirare proprio a Barbone nella scelta del reperto grafico da comparare con quello reperito due anni prima nella base di Alunni. Da qui il giusto significato da attribuire a quel titolo, altrimenti fuorviante, apparso l’altro giorno su Il Corriere della sera: “L’ultima verità sull’assassinio di Tobagi: il giudice Salvini “Si poteva salvare”.


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