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Napoli, il web atlante degli orrori

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 di Fabrizio Feo

Napoli, Rione Traiano, più o meno tre anni fa. Nel quartiere si susseguono atti di violenza tra giovani leve criminali. Fabio Orefice, ventenne, considerato vicino ad un clan della zona, viene ferito nel corso di una sparatoria. Per niente intimorito sfida gli aggressori e posta su Facebook  frasi inequivocabili: “Il leone è ferito ma non è morto, già sto alzato. Aprite bene gli occhi che per chiuderli non ci vuole niente. Avita muriii”. “Dovete morire”, scrive, e non contento pubblica le foto che ritraggono i punti del corpo in cui è stato ferito. Aggiunge istantanee di armi e munizioni. Un messaggio per così dire “posta raccomandata”.
Sei giorni dopo gli arriva la “ricevuta di ritorno”: sconosciuti a bordo di una moto di grossa cilindrata sparano con i kalashnikov contro il portoncino della sua abitazione. Gli investigatori di li a qualche mese scopriranno che Orefice,a sua volta, ha risposto all’ultimo attacco con una spedizione punitiva…annunciata, rigorosamente, via social network.
Sui social viaggiano violenza, minacce, come quelle contenute nella pagina Facebook di Walter Mallo, giovane capo camorra del rione Don Guanella di Napoli ,27 anni e già una condanna a sedici anni, più di metà della vita che ha vissuto.
Tempo trascorso a commettere delitti e a scontrarsi con altri clan, che senza troppi complimenti gli hanno messo una taglia sulla testa. Naturalmente via social, dove le dichiarazioni di guerra non si contano. “Due esponenti delle famiglie Mallardo e Misso hanno passato ore a minacciarsi e insultarsi su Facebook . Mancava solo che si dessero appuntamento per una sparatoria, sono senza parole”: così Giuseppe Borrelli, procuratore aggiunto di Napoli, tre mesi fa aveva commentato lo scontro tra appartenenti alle famiglie Misso e Mallardo, dietro profili probabilmente falsi. Dalle parole e dai post si rischiava di passare alle pallottole .
Negli ultimi 4 anni sono diventati un’infinità i casi in cui camorristi o paranze di giovanissimi gangster napoletani hanno fatto a gara nell’aggiungere sui social network valanghe di foto, post su post, grondanti sottocultura, dichiarazioni di appartenenza al clan come ad una religione, esaltazioni dell’equazione tra potere e violenza, richieste di atti di fedeltà, o vere e proprie operazioni di reclutamento. Il social come mezzo di propaganda, di comunicazione, quasi una funzione vitale, cui in molti restano incollati. E che rischiano spesso di trasformarsi in una trappola. Nel vero senso della parola. In diversi casi è bastato seguire le tracce via internet, i dialoghi e i post, per arrestare camorristi, giovani criminali in Italia, in Spagna o magari in Messico.
Per non parlare dell’agghiacciante sistema di scegliere le vittime della guerra tra clan proprio sulle pagine Facebook: una circostanza certificata nelle motivazioni della sentenza di condanna per i killer di un boss della Sanità ucciso a novembre del 2015.
Insomma, con un click si può entrare in una sorta di atlante web degli orrori e dei disvalori: dall’elogio dell’omertà e dall’esaltazione del marchio d’ infamia per chi tradisce, collabora, all’odio per magistrati, investigatori, giornalisti e Stato. Veri e propri cataloghi del bieco vivere, prodotti di mutazioni che riguardano l’intera società, conditi e drogati da modelli negativi, amplificati in particolare dal micidiale effetto moltiplicatore di alcune serie televisive.
Tutto questo ha offerto a studiosi dei fenomeni criminali occasioni e spunti di riflessione spesso assai utili. E’ importante sottolineare però che questo particolare mondo non è nato sui social. Ci si è solo trasferito. Chi segue i fatti di camorra da qualche anno ricorderà che nel giugno 2007 nel corso di un blitz che portò all’arresto di 53 persone (dei clan Ascione e Iacomino-Birra, attivi a Ercolano) vennero sequestrati i locali e gli impianti di ricetrasmissione di ‘Radio Nuova Ercolano’, frequenza 95.100.
Secondo gli investigatori, programmazione e musica coprivano un canale di comunicazione tra affiliati a clan camorristici. Semplici canzoni erano, in realtà, messaggi in codice. Gli auguri erano, invece, congratulazioni per scarcerazioni e comunicazioni con i detenuti nel carcere di Poggioreale. Non era né la prima né l’unica radio a fare quel lavoro. E del resto non c’erano solo le radio.
Cinque anni prima, nel febbraio 2002, agenti della Polizia Postale della Campania avevano sequestrato gli impianti di diciassette radio e di quattro televisioni private perché “minavano la regolarità e la sicurezza delle comunicazioni via etere” al punto da interferire con gli spazi riservati alla sicurezza aerea dell’aeroporto di Capodichino e delle basi Usa e Nato. Furono denunciati  i responsabili delle emittenti. Diversi di loro avevano precedenti penali ed uno era stato arrestato dalla squadra mobile di Napoli, mentre partecipava ad un summit di camorra.
Un caso? Assolutamente no. Alcune emittenti televisive locali napoletane nel corso degli ultimi 30 anni sono state più volte sospettate di aver dato appoggio ad attività illegali o essere vicine a clan criminali, e in alcuni casi di aver anche riciclato denaro. E tra aste cartomanti, canzoni di  neomelodici, hotline sono passati molte volte messaggi in chiaro o in codice ad appartenenti alla camorra, detenuti e non solo: tra il 2004 e il 2009 radio e televisioni tra Napoli, Caserta e Salerno mandavano in onda spesso la canzone ‘o capo clan’, di un cantante neomelodico napoletano. Un elogio della figura del capo di una cosca di camorra e dei suoi metodi. Nel 2009 fu chiesto di rimuoverla da Youtube. Ma è ancora li.

Da mafie

 


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