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“Made in italy”; la classe operaia ritrovata di Ligabue

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L’avevo scritto più o meno ventotto anni fa, ascoltando i ‘demo’del primo album di Luciano Ligabue, che non era ancora uscito : quell’ex consigliere comunale di Correggio che ‘nasceva’ al rock componeva canzoni che sembravano film, e che di cinema, arte popolare per eccellenza,  già risuonavano. I suoi rarissimi film (“Radiofreccia”, 1988, “Da zero a dieci”, 2002, opera seconda meno celebrata ma che ancora mi emoziona), come i suoi racconti e come la sua musica, hanno un raggio d’azione limitato alla  realtà – anche sociale-che conosce e in cui è cresciuto, tra la Via Emilia e il West, come diceva Guccini. E’ per questo che – come la musica e come i racconti- suonano sempre sfacciatamente sinceri,  a costo di rinunciare a furbizie e scorciatoie narrative.

Questo  suo terzo film da regista e sceneggiatore,“ Made in Italy”, non fa eccezione. Parla di classe operaia ( cosa oggi rara nel nostro cinema), ma il Liga, che rifugge dai generalismi, preferisce definirla “la storia di uno solo”. Se poi questo “uno”, che è Stefano Accorsi ( di nuovo alter ego di Ligabue a vent’anni da “Radiofreccia”), fa l’operaio in un salumificio, e viene licenziato dopo trent’anni di lavoro, e precipita nella depressione tipica degli ‘esodati’, ogni riferimento ai ‘tutti’ è puramente casuale. Il titolo è già stato macinato dall’ album e dal tour omonimi, ma la conversione in film nasce dal fatto che per la prima volta in vita sua il rocker che contende il primato nazionale a Vasco ha scritto un ‘concept album’, progetto, come dice lui, “balordo, anacronistico e al limite della presunzione, in questi tempi di ascolto fugace”.  La molla è “l’amore frustrato verso il nostro Paese”, che da una decina d’anni Ligabue esprime occasionalmente in qualche canzone (“Non ho che te” già parlava di uno che perde il lavoro) e che qui delega all’operaio Riko. Uno che “avendo meno privilegi di me mi sembrava avesse ancora più diritto a una certa incazzatura”.

Il contesto sociale è onnipresente, ci sono i cortei per difendere l’Art. 18 , la cantilena spread-crisi-sacrifici-tagli di personale, il crollo di chi col posto perde anche la sua identità.  Ma la storia privata è quella di Riko-Accorsi , con le sue nostalgiche camicie western , e di sua moglie Kasia Smutniak, parrucchiera, tra crisi, alti e bassi, drammi e piccole infedeltà, con gli amici, i riti, le mattane della provincia, la “straordinaria vita ordinaria”di chi non conta.” “Certe notti” a quarant’anni finiti cambiano, ma neanche poi tanto… Sono le brave persone che restano tali nonostante la ‘legge del furiere’ di questa Italia”, dice Ligabue. La ‘legge del furiere’, enunciata nel film, suona più o meno così:  chi sbraita non monta di guardia, lo fa fare a chi compie il suo dovere in silenzio.  Perché “essere brave persone in questo Paese non paga”.

Ligabue non è uno da proclami o manifesti ideologici, però si prende la briga, quando decide di riassumersi ”la fatica boia di fare il regista”, per dirla con lui, di raccontare quel tipo di umanità che secondo il nostro cinema corrente non fa cassetta. E lo fa, dal suo spicchio di mondo così circoscritto, con quel misto di amore e rabbia che è la forza di tanto cinema indipendente americano ma di cui il nostro cinema sembra ormai strutturalmente incapace. Incapace di ricollocarsi in patria, l’operaio Accorsi finirà per emigrare in Germania, a lavorare in un ristorante. Meglio questo che vendere la casa costruita da suo padre e suo nonno, che non si può più permettere. Perchè oggi chi lavora sta peggio delle generazioni di ieri.. Tutto vero, no ? Ma diciamolo sottovoce. Lui è pronto a giurare di aver fatto “ un film sentimentale”. In calce, prima dei titoli di coda, Cesare Pavese ci ricorda che “un paese vuol dire non essere soli”. E questa, dopotutto, è la vera morale del Liga.


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