L’artista internazionale del mosaico, il ravennate Marco Bravura che vive e lavora in Russia, desidera donare l’opera Lampedusa al Museo della Fiducia e del Dialogo per il Mediterraneo di Lampedusa.
Marco Bravura è un artista. Ha respirato l’aria di casa. In quel tratto di terra di una capitale che fu: Ravenna. “[…] Qui dove un’antica vista si screzia in una dolce ansietà d’Oriente”, scrisse Eugenio Montale.
Ravenna, medaglia d’oro al valor militare. La resistenza alle oppressioni naziste e fasciste qui furono di casa. La città e le zone intorno sconvolte da bombardamenti e rappresaglie assassine. Centinaia i partigiani caduti nella lotta in quel fronte di guerra lì accampato per sei mesi, con i cittadini, uomini, donne e ragazzi a fianco dei combattenti. Combatté all’ultima goccia, la brigata partigiana “Mario Gordini”, fino al termine di quell’orribile guerra, orripilante com’è qualsiasi guerra. La solidarietà è intrisa nei portatori di pace.
Marco Bravura ha respirato quell’aria sin da bambino, quando si aggirava e sbirciava le botteghe di quelle persone che avevano tra le mani pezzi di piccole pietre dai mille colori, per comporle, una accanto all’altra, nell’arte del mosaico, qui millenaria. Un giorno Marco Bravura varcò la porta del mausoleo di Galla Placidia e restò ammaliato dal quel cielo composto di stelle. Che ha ammaliato nei secoli chiunque sia passato di lì, alimentando sogni e quelle emozioni che fanno vibrare la mente e la pelle, da sconfinare nelle leggende vere o presunte. Si dice che a Cole Porter, lì in viaggio di nozze, di fronte a quella cupola piena di stelle, incantato da quell’atmosfera, sgorgasse l’ispirazione per Night and Day.
Un artista e l’aria di casa. Un artista esprime nella propria arte, quell’aria che ha avvolto nel tempo i luoghi in cui è nato. Marco Bravura è cresciuto seguendo le orme dei padri alle prese con la voglia di libertà per costruire ponti di pace. Ed è cresciuto con l’arte dei padri alle prese con l’arte del mosaico. Componendo, pietra dopo pietra, tessera dopo tessera, mosaici intrisi di quell’aria di casa, vicina ed ereditata dal tempo. Attorno a casa sua, una distesa di campi, con i contadini impegnati nei lavori della terra. Raccoglievano dalle stoppie il fieno essiccato dal sole e con i forconi mettevano quella paglia sui carri trainati da buoi. Così li vedeva quand’era bambino, Marco Bravura. Poi, crescendo, avrebbe visto tra i campi macchine agricole che pressavano quella paglia in parallelepipedi gialli come grandi mattoni sbiaditi dal sole. Poi nuove macchine crearono al posto di parallelepipedi, balle di fieno rotonde come grandi ruote.
E Marco, artista del mosaico, in nuovo linguaggio, applicando il mosaico alla scultura, creò una rotoballa.
Un’opera a grandezza naturale, diametro di 180 centimetri e 120 di profondità, una struttura in vetroresina ricoperta con tessere di smalto d’oro di tre sfumature diverse.
“Questa installazione – spiegò l’artista – vuole attirare l’attenzione sulla forza e sul valore dell’azione di recupero. L’idea nasce dall’osservazione degli scarti dell’oro musivo nelle fornaci e degli scarti della mietitura, le balle di paglia. Suggerisce di apprendere l’arte del riciclo-riutilizzo-rivalutazione, soprattutto del recupero del nostro sguardo, così da non farlo cadere banalmente nell’ovvietà della consuetudine, per stimolarne invece la capacità di scoprire, vedere e stupirsi che avevamo all’inizio del nostro viaggio visivo.”
Marco, ne avrebbe progettate altre di rotoballe. Opere itineranti. Le vidi esposte in una notte di luna dalle parti del Mausoleo di Galla Placidia, in occasione del Ravenna Mosaico Festival 2009.
Poi furono esposte alla Biennale di Venezia, a Murano nella chiesa dei Santi Maria e Donato. Ancora al Cremlino di Kazan, Tatarstan. Un giorno, su una strada di San Pietroburgo, inchiodai la macchina sorpreso nel vedere sulle soglia di un palazzo, l’Accademia Imperiale delle Arti, voluta da Caterina la Grande, lì esposta l’opera di Marco.
Da tempo Marco Bravura e la moglie Daniela, si sono trasferiti in Russia. Entrambi lavorano alla Ismail Akhmetov Foundation, un’istituzione preposta all’integrazione di culture diverse. Daniela si occupa di relazioni internazionali e Marco fa conoscere l’arte del mosaico ravennate continuando a progettare e a realizzare opere d’arte, nel segno del mosaico, che viaggeranno a bordo di navi e di camion per essere esposte o installate nel mondo.
Nei giorni scorsi ho incontrato Marco Bravura di ritorno a Ravenna. Qui al Museo d’arte della città, il MAR, si è tenuta una mostra sul rapporto tra la scultura e il mosaico, documentando il percorso che ha coniugato a partire dagli anni trenta fino ai giorni nostri la scultura al mosaico.
La mostra “La scultura in mosaico dalle origini a oggi” ha ribadito e confermato la vocazione della città quale capitale nel mondo dell’arte musiva.
Ci siamo inoltrati tra le opere esposte dei grandi maestri, Lucio Fontana, Mimmo Paladino, Andrea Baj, Athos Ongaro, Felice Nittolo, Francesca Fabbri, Ettore Sottsas Jr, Marco De Luca, Sandro Chia, Riccardo Licata, Nane Zavagno, Yukiko Nagai e di molti altri ancora, in una magica sequela di opere d’arte all’insegna del mosaico di casa e delle altre parti del mondo, nell’abbraccio di antichi e nuovi linguaggi.
Di Francesca Fabbri, artista di casa, sono presenti in mostra alcuni lavori, tra questi Il Prigione , una struttura in legno e materiali sintetici, interamente ricoperta in tessere di platino. L’artista ravennate nel 1988 in città fondò Akomena, Spazio Mosaico. Un laboratorio destinato ad imporsi ai massimi livelli. Nel 1996 vinse il concorso internazionale bandito dalla Fondazione Nureyev per realizzare la tomba del ballerino russo. Oggi l’opera, ideata dallo scenografo di fama mondiale e grande collaboratore di Nureyev Ezio Frigerio, raccoglie e custodisce le spoglie del grande Rudolf nel cimitero di Parigi. Un’opera prestigiosa, una delle sculture in mosaico più copiate al mondo, realizzata a Ravenna appunto da Francesca Fabbri. Un orgoglio per la città e un viatico per affermare nel mondo l’arte del mosaico contemporaneo, creata nella città bizantina.
Nell’opera Il Prigione, l’artista esprime tutta la sua incredibile abilità nel conferire leggerezza e morbidezza a delle rigide tessere di vetro. Il plasticismo del tessuto che avvolge un’indefinita creatura è straordinario e a tratti seducente. Nonostante il titolo rimandi a Michelangelo, quest’opera ricorda il Cristo velato, una delle sculture più famose al mondo.
È alla ricerca di nuovi linguaggi Dusciana Bravura, figlia di Marco, che del padre ha seguito le orme.
Dusciana Bravura, presenta in Mostra l’opera Siamo tutti sulla stessa gondola. È tra le più apprezzate dal pubblico che ha visitato la mostra, soffermandosi appunto su quest’opera sorprendente, con i sovradimensionati Diamond Gould appollaiati su una gondola rovesciata, rivestiti di murrine, smalti, perline che rivelano abilità, precisione ed infine umorismo ed ironia.
Ancora ci si sofferma sull’altra opera di Dusciana custodita nella collezione permanente dei mosaici contemporanei del MAR, L’Unicorno: scultura in mosaico realizzata con vetro opalescente, murrine, oro mosaico, adesivo cementizio su struttura di resina. Dusciana, nata a Venezia e residente a Ravenna, tutt’ora su e giù tra le due città. Disse di lei Philippe Daverio “che soltanto una nata a Venezia e residente a Ravenna poteva immaginare il mondo come l’immaginava Dusciana attraverso le sue opere. Dusciana – affermò ancora il critico d’arte con il papillon – è la nuova versione di ciò che è stato Emilio Vedova. Vedova faceva la Venezia barocca in una condizione di crisi, Dusciana sta facendo la Venezia bizantina in ri-costruzione.”
Di figlia in padre. Con Marco, il padre di Dusciana, il viaggio prosegue tra le opere esposte. Di artisti colleghi e di opere sue. Come La bambola orientale. Marco la creò nel ‘95 usando paste di vetro, smalti e murrine, frammenti di pietra, vetri a foglie metalliche d’oro e d’argento. E ancora, nella dodicesima sala, l’opera The Head, la testa, realizzata da Marco nel 2011 per la mostra Reliquarium, nell’ambito della Biennale d’Arte contemporanea di Mosca.
Un’opera d’arte parla normalmente da sé. Marco mi sottolinea con le parole l’opera esposta, ora di fronte, The Head: “Per tradizione, un reliquario contiene resti umani. Nel caso dell’opera Head, ho pensato ad un contenitore che prendesse la forma del contenuto: la reliquia stessa, una testa. Ho delineato la forma di una testa umana
con strisce che evocano il bendaggio di una mummia. La struttura mi ha ispirato la visione di un mosaico che potesse narrare l’eterna dualità che costituisce la natura umana: l’aspetto esteriore e quello interiore. Ho immaginato la parte esterna del reliquario come una sorta di bendaggio che copre i lineamenti, seguendo semplicemente la forma della testa, la fisionomia generale. Rispecchiando la soluzione formale adottata nei monumenti bizantini, ho scelto di celebrare la bellezza e la ricchezza dell’interiorità, utilizzando la brillantezza delle tessere di vetro, di oro e specchio, descrivendo le cellule cerebrali, quali i dendriti e i neuroni specchio, mutuati dalle immagini delle recenti scoperte della scienza. Neuroni specchio e dendriti agiscono come trasmettitori, comunicando impulsi originati in ogni cellula; allo stesso modo, ogni tessera, l’unità del mosaico, comunica con l’intero tramite gli andamenti, creando un risultato armonico”.
Da questa sala ci affacciamo all’esterno. Scende la sera sul prato dove le rotoballe di Marco Bravura, giunte da Mosca su un camion, fra qualche giorno ripartiranno su un camion di nuovo per Mosca. Le lamine dorate a ricordo della paglia ingiallita dei campi, vengono sbiadite dalle ombre che si fanno via via più scure. L’artista mi racconta un desiderio. “Vedi, quell’opera lì? … L’opera è Lampedusa. Ecco, mi trovavo in Russia da mesi… Nell’ottobre del 2013, il due o il tre, mi giunse la notizia di quell’apocalisse nel mare di fronte a Lampedusa, 368 morti, decine di dispersi. Una strage che avrebbe continuato a sterminare povera gente, alla ricerca della possibilità di vivere in pace. Uomini, donne e bambini. Mi ritornarono in mente le cataste di oggetti, scarpe, occhiali, insomma le migliaia di effetti personali sottratti alle vittime dell’Olocausto e buttate in un mucchio alla rinfusa. Avvertii la continuazione di un altro olocausto, sotto un’altra forma in cui l’ipocrisia regnava sovrana. Chi avrebbe potuto tollerare quella strage nei mari di queste povere persone scappate dagli inferni di fame e di guerra, in cerca di pace e un briciolo di dignità? Chi avrebbe potuto tollerare quest’infamia dell’umanità senza muovere un dito?”
Al pannello Lampedusa si avvicinano alcune persone. Guardano in silenzio quell’opera, due metri per due metri e cinquanta, un altorilievo in tecnica a mosaico. Le onde del mare, ormai senza respiro, increspate e ibernate in un grigiore sottile. Sulla battigia, oggetti dalla vita spezzata. Sandali, bambole, bottiglie di plastica, un pettine, una specie di giocattolo, forse un biberon che quei bambini forse non hanno mai visto o soltanto sognato. Quelle povere cose senza vita sono sopravvissute ai bimbi dispersi, naufragati, annegati, in quei viaggi della speranza, alla ricerca di brandelli di vita. Povere cose andate ad arenarsi sulla terra di Lampedusa.
Le persone di fronte a Lampedusa, iniziano a commentare a basa voce. Rievocano le stragi di disperati nel mare, ricordando il grande cuore della gente di Lampedusa. Poi si mostrano indignati per l’affossamento “figlio di interessi elettorali” dello ius soli.
“Una vergogna”, chiude il discorso una ragazza nel gruppo.
Con Marco Bravura usciamo all’aperto. “Le rotoballe – mi dice – nei prossimi giorni partiranno di nuovo su un camion per ritornarsene a Kaluga in Russia, alla fondazione Akhmetov di Tarusa”.
Ci salutiamo. Poi mi richiama. “Ho un desiderio da tempo”. “Dimmi Marco”. “… Lampedusa fu esposta a suo tempo al Manege, uno spazio per mostre di fronte al Cremlino a Mosca, a cura dell’Istituto Italiano di Cultura in un convegno sull’immigrazione. Ora Lampedusa è qui a Ravenna, in attesa di ritornare anche lei in Russia, a Kaluga. Ecco il desiderio che covo da tempo è quello di vedere Lampedusa esposta al Museo della Fiducia e del Dialogo per il Mediterraneo. Ecco desidero donare per sempre questo mio lavoro alla gente di Lampedusa. Sperando nella fine di queste barbarie ai danni di uomini, donne e bambini”.