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L’abc del pentito calabrese

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di Giuseppe Baldessarro

A sentirlo parlare ricorda Tommaso Buscetta, quando nel 1986, nell’aula del maxi processo di Palermo, svelava i segreti di Cosa Nostra. Antonio Valerio, il pentito della ‘Ndrangheta che sta raccontando le “cose” dei clan in Emilia Romagna, ha lo stesso piglio, la stessa nitidezza nei racconti. A trent’anni dalle parole di “don Masino”, anche lui usa un linguaggio “scolare”.
Quel linguaggio indispensabile a far comprendere ai magistrati i meccanismi e la cultura di un’organizzazione criminale da queste parti ancora “sconosciuta”. Buscetta, a Palermo, raccontava per la prima volta al mondo l’essenza di Cosa Nostra. Valerio, a Reggio Emilia, ha spiegato la ‘Ndrangheta a giudici che per la prima volta si occupano di clan calabresi.
Lo ha fatto senza giri di parole, e nessuna metafora. I sott’inteso usati tra ‘ndranghetisti e tra calabresi che conoscono il fenomeno sono d’un tratto scomparsi, sarebbero stati inutili. In aula, davanti ai giudici, per essere compresi i pentiti di nuova generazione parlano in chiaro, come se si trattasse di una nuova lingua, per neofiti.
In questo senso ha iniziato dall’a.b.c. dalla storia dei clan in Emilia Romagna: «Posso dire che in Emilia la ‘Ndrangheta esiste quantomeno dagli Anni Ottanta». All’epoca, le locali di ‘Ndrangheta, strutturate e forti, c’erano e agivano nel nome dei Dragone. Poi la guerra di mafia interna, combattuta sul territorio emiliano romagnolo e su quello calabrese. Quindi l’ascesa dei Grande Aracri e dei loro alleati.
Valerio arriva al seguito dei cutresi a Reggio Emilia fin dall’inizio, si fa le ossa con la droga, poi ci sono gli omicidi, quindi l’assalto alle imprese del settore edile. E svela ogni passaggio: “Si rischiava troppo a spacciare droga. Per quello siamo passati alle false fatturazioni, alle evasioni fiscali e via dicendo. Per soldi abbiamo anche falsificato permessi per la Bossi-Fini con false attestazioni per le sanatorie. Del resto Reggio Emilia era piena di stranieri con false certificazioni. Io andavo semplicemente a ritirare in prefettura i pass e via così”.
Soldi a palate senza sporcarsi le mani. “Bastava pagare tre bollettini ed era fatta. C’era il credito Iva che poi si usava per compensare addirittura i contributi». Un doppio incasso: soldi dai “clienti” stranieri, e somme sottratte all’erario.
Tutto spiegato in maniera semplice e diretta. Come quando parla ai magistrati delle risorse a disposizione delle cosche a processo: “Hanno ancora tanti soldi e continuano a gestire gli affari anche da dietro le sbarre”. Per Valerio i clan “ancora oggi hanno grandi disponibilità di denaro” e intrattengono “rapporti con altri i boss detenuti e con gli affiliati”. I capi “ricevono il consuntivo di quello che avviene fuori”. I soldi dei nuovi affari vengono usati “anche da chi è ristretto per comprare o riscattare immobili pignorati e, in un caso, per le stesse spese processuali di Aemilia”. Prima ancora c’era stata la strategia per rifarsi una verginità.
Prima di Aemilia i clan lavoravano per sostenere la politica in maniera che la politica difendesse le imprese mafiose: “Si trattava di costruire per il futuro una struttura, un contenitore di voti che noi potevamo spostare dove volevamo perché una volta che avevamo aiutato queste persone in un momento di difficoltà, la loro fedeltà era totale”.
In maniera chiara Valerio spiega che “avveniva tutto in funzione della logica secondo cui dovevamo ripulirci a livello giuridico, sociale e di immagine”. Ed in questo contesto ci fu anche l’incontro con l’ex prefetto Antonella De Miro, dove alcuni esponenti dei clan dal volto pulito vennero accompagnati da politici locali: «Lo scopo era quello di far capire che i cutresi erano lavoratori e avevano fatto tanto per la città. E che le interdittive antimafia date alle nostre aziende erano il frutto di un preconcetto”. Ufficialmente brava gente, che però si stava prendendo la città e la regione. Tutto spiegato senza giri di parole.

Da mafie


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