Una sentenza incontrovertibile, inconfutabile: Il dolore puzza, e su questa ragione, su questo conquistato assunto, la storia si dipana. Una sentenza figlia non di un processo ma di un perpetuo venerdì santo; piuttosto di una processione fatta di sole cadute e sconfitte, dove la ripartenza non è la necessità di riscatto che si fa strada, ma l’accettazione della propria condizione spirituale sempre più misera. La ricapitalizzazione delle sofferenze come percorso necessario, l’unico possibile, perché senza sofferenza, poi noi non sappiamo cosa fare per tutto il giorno.
Tutto ciò che da secoli è perfettamente cadenzato e scandito, in un paese di provincia dove ogni storia è raccontabile alla stregua di un’unica storia che si ripete come unostinato musicale, diviene improvvisamente aritmico, perché Caterina è sorda all’immobilismo e danza in un altro tempo, salta dei battiti, tiene gli occhi chiusi per vedere meglio la direzione, per sentirla bene nella pancia e seguirla.
I primi anni Ottanta hanno l’impatto di un incidente frontale per chi non ha partecipato alle lotte per i diritti delle donne, per chi non ha mai pensato che le donne ne potessero avere, per chi dal nulla si scopre gente e non elemento di servizio del genere maschile.
I primi anni Ottanta sono un intricatissimo dedalo per gli uomini – che si trovano di fronte a donne col diritto di divorziare e abortire – ma anche per le donne che non sanno come gestire la loro libertà di scegliere e dunque non scelgono. Restano in ciò che è noto e asfittico ma comunque conosciuto e rassicurante, visto che Il passato è un luogo ordinato, quindi sicuro.
La scordanza è la salvezza. È la possibilità, una volta subita la vita, di dimenticarla. È l’apertura del passo che porta al di là della caducità umana, è il Paradiso fatto in casa, meta di un Credo troppo spesso confuso con le credenze, di una tradizione cristiana avvezza alla magia più che alla spiritualità, alla superstizione più che alla fede. Ciò che racconta Dora Albanese è una profezia. È il cambiamento che mostra l’opportunità. È la dimostrazione che la battagliaporta al risultato, che l’azioneporta alla rivoluzione e che l’esercizio del pettegolezzo, solo smagrisce le giornate – altrimenti interminabili – ma non allunga le prospettive.
E il cambiamento, nella comodità del lamento recriminatorio, non è mai perdonato, perché l’incrollabile equilibrio diventa sbilanciamento e dentro lo sbilanciamento si disvelano i cocci delle proprie viltà fino ad allora ben ricacciate sotto il silenzioso velluto di uno zerbino.Caterina cerca il suo disastro interiore su una scacchiera minata, dove è il Re, non la Regina, a muovere in tutte le direzioni. Una devastazione necessaria, ché l’unica cosa possibile è costruire sulle macerie, giammai sugli instabili pilastri di un conformismo oramai giunto all’ultimo stadio.
La scordanza è un romanzo che tiene legati alla lettura ma anche alle radici di un Sud contadino spesso narrato – fatti salvi nobili casi letterari – per luoghi comuni e litanie, senza l’efficacia stilistica con cui la Albanese intarsia il racconto.
Se il romanzo è il contenuto, La scordanza è l’emblema della società che racconta.
Se il romanzo è la forma, La scordanza è l’epifania di nuovo linguaggio.
Se il romanzo è il sapiente connubio di entrambe le cose, La scordanza è il romanzo.
E la Albanese una scrittrice necessaria.