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La par condicio ai tempi dei social network

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Siamo (da tempo, non ci sono più le mezze stagioni) in piena campagna elettorale. Nei prossimi giorni l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e la Commissione parlamentare di vigilanza emaneranno i rispettivi regolamenti, in applicazione della legge del febbraio del 2000, n.28. Tuttavia, la “par condicio” fu varata in una stagione tecnologicamente diversa, quando la rete era in una fase assai meno evoluta. I social non esistevano, almeno nella forma di massa che conosciamo. Ma, come è stato scritto da tanti commentatori, saranno le piattaforme di Internet il cuore della competizione. E se la normativa generale è bucherellata molto spesso nei media tradizionali, nei nuovi mezzi nulla c’è. Neppure è regolata la figura professionale dell’influencer, vale a dire lo specialista della comunicazione che naviga sotto la superficie dei segni, in grado di leggere le aggregazioni dei dati. Di fronte all’opportunità di conoscere gli stili di vita e le attitudini di migliaia e migliaia di utenti, con la possibilità di personalizzare la propaganda su economie di scala larghissime, le modalità tradizionali non bastano. Una diretta ben organizzata su Facebook ha un impatto enorme, ad esempio.

Si prospetta, così, un vero e proprio salto nel buio, perché ancora non è testato seriamente l’esito potenziale di un’invasione così capillare del nostro immaginario. Laddove ciò è avvenuto, vedi il caso di Trump, i risultati finali hanno ribaltato le previsioni. Non si può escludere che qualcuno dei contendenti si sia già ampiamente organizzato, investendo parecchie risorse. Del resto, chi vigila? Insomma, è bene chiarire come stanno le cose, onde evitare ingenue sorprese. E’ necessario, allora, pensare al “che fare”, se qualcuno è in ascolto.

Innanzitutto, l’articolo 1 della legge n.249 del 1997 attribuisce all’Agcom dei poteri generali, che includono gli effetti dell’evoluzione tecnologica. Anzi, la legge fu allora pensata per attribuire all’Autorità ruoli progressivi, aggiornabili per via regolamentare. Basterebbe, dunque, un’indicazione complessiva: siano gli stessi social a dotarsi di “codici di autodisciplina”, che riprendano lo spirito della “par condicio”. Pochi punti di principio: dal silenzio elettorale, all’eguale opportunità offerta a tutti i soggetti in campo, alla definizione degli spazi della comunicazione politica. Gli articoli 3 e 21 della Costituzione garantiscono la libertà di espressione e l’effettiva partecipazione alla vita democratica. Dovunque.

Naturalmente, la questione è delicata e serve il fioretto. Mai si deve sfociare in interventi lesivi dell’indipendenza o evocativi di misure censorie. Proprio per questo è preferibile l’autoregolamentazione dei soggetti direttamente interessati, piuttosto che il ricorso a “grida” esterne. D’altronde, se gli Over The Top intendono assurgere ad interlocutori del potere pubblico (lo sono stati al recente G7 di Taormina) non possono eludere i doveri conseguenti.

Presso l’Autorità esiste un tavolo di lavoro, i cui confini andrebbero utilmente ampliati per affrontare la questione. Sono, poi, gli stessi “intellettuali della rete” e coloro che quotidianamente  fanno opinione sul bene e sul male dei social, sui pericoli per i minori o sulle fake news ad essere chiamati a svolgere una funzione dirigente, creando il clima opportuno per studiare velocemente le scelte giuste. Si tratta di un passaggio rilevante, che illuminerà –in un modo o nell’altro- il futuro della rete: democratica o oligarchica non nella teoria, bensì nella prassi.


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