Se il nuovo lavoro di Ozpetek si poneva lo scopo di “svelare” il lato misterico di Napoli, di indagare la sua natura di palude argolica, di porta d’accesso allo Stige, di palcoscenico arcaico dove si rigenerano incessantemente i cerimoniali oscuri delle lernèe, possiamo dire che il risultato è raggiunto solo in parte.
Suscitano, ad esempio, una certa perplessità le luci museali da archistar che se da un lato raffreddano la materia trattata, evitando visceralità e folklore, dall’altro danno ai corpi di pietra un’evidenza patinata che contrasta con le scelte formali che caratterizzano lunghi tratti del film. Certi interni high-tech privati e pubblici sembrano rispondere alla stessa necessità, pur restando a un’incolmabile distanza dall’apocalisse irreversibile di capolavori come Nocturnal Animals.
Del fastidio maldestro e scettico provato da Ozpetek quando decide di avventurarsi in territori che lambiscono la ghost story, ci eravamo già accorti ai tempi di Cuore Sacro e Magnifica presenza. Troppo loquaci, troppo materici e quotidiani i suoi fantasmi per riuscire perturbanti e condurci davvero dietro lo specchio. Pur pallidi, e a volte persino smagriti e disorientati, non sono che il riflesso di un desiderio umano diventato ossessione.
Persino la complessa trama del film, una volta dipanata, si riduce a sceneggiatura da fiction televisiva, con cadute nella sgradevolezza di un grottesco eccessivo e ridicolo (la sequenza della medium allettata, o quella in cui si srotola fra luoghi comuni d’ogni sorta la riunione di anziane trans malvissute), nell’ode alla sana normalità familiare (il poliziotto buono con annesso figlioletto), o nella frase a effetto autobiografica (secondo quanto dichiarato dal regista) che in un fotoromanzo degli anni ’50 avrebbe sicuramente colpito al cuore le trepidanti lettrici: domattina farò tardi perché passerò la notte con te.
Quanto alle pubblicizzatissime sequenze erotiche, si avverte una netta sensazione di déja-vu, come se Ozpetek avesse compiuto un’operazione di copia/incolla servendosi della lunghissima scena d’amore contenuta in La vie d’Adèle. Solo che, nella realizzazione tecnica di quest’omaggio (chiamiamolo così), non avendo Ozpetek la potenza e la profondità di Kechiche, vanno perduti i riferimenti a Pasolini, alla carne illune di Mantegna, alla fragile immanenza dei corpi che si scontrano alla ricerca di un’impossibile fusione, di una temporanea eternità che continuamente si sottrae alla presa.
Cosa resta? Reperti anatomici molto belli, molto ben fotografati, che ripetono i movimenti famelici del desiderio, di un amour fou per sciampiste che avrebbe gettato nello sconforto, o fatto inorridire, la povera Adèle Hugo di Truffaut.
Di positivo c’è il tentativo di comporre un’opera nera e visionaria con pochissimi precedenti in Italia; vengono in mente soltanto L’amore molesto di Martone e tre film di Tornatore: Una pura formalità, La sconosciuta, La migliore offerta. Puntando quasi tutto sulla forza evocativa e deformante delle immagini, Napoli velata riesce qua e là a produrre effetti di grande suggestione, alcuni indimenticabili. Possiamo ricordare le scale interne dei palazzi, che assumono sotto i nostri occhi la forma di spirale galattica per rappresentare lo smarrimento umano davanti alla perdita barocca di ogni punto di riferimento. O le luci acide, scortecate, che inducono un reale malessere entro i corridoi dell’Istituto di Medicina Legale, e mostrano la morte con una crudezza silenziosa e asciutta che evidenzia la maturità raggiunta dal regista rispetto alla morgue pop e canterina di Saturno contro.
O ancora, gli spunti inquieti da Cunto de li Cunti: il ragazzo in preda ai dolori del parto nella rappresentazione teatrale privata che dà inizio alla storia; le carni corrose dalla lebbra millenaria del disincanto; il riso addolorato e sommesso di Peppe Barra, grandioso e misurato cantore della vicenda, ironico Nume destinato al sacrificio; il ballo, lento antico perverso, fra le due collezioniste d’arte Ludovica e Valeria, legate da una relazione saffica e probabili omicide. Lina Sastri e Isabella Ferrari, sottilmente crudeli, si servono di una maschera antica (un reperto archeologico, motore dell’intera vicenda delittuosa, un po’ come, in chiave di commedia, il simulacro priapesco con cui viene soppresso il laido architetto Garrone in La donna della domenica) per blandirsi e occultarsi durante la danza rarefatta da Lamie.
Da citare l’eleganza di Anna Bonaiuto, cui basta accennare qualche movimento su una musica perduta e ritrovata per portarci via, lontano, verso esperienze iniziatiche: Yet still stedfast, still unchangeable,/Cheek-pillow’d on my fair Love’s ripening breast,/To touch, for ever, its wam sink and swell,/Awake for ever in a sweet unrest,/Still, still to hear her tender-taken breath,/And so live ever—or else swoon to death. (1)
E, senza dubbio, la combustione ininterrotta (di desiderio, di dubbio, di sperdimento, di illusione, di paura, di perdita) che avviene negli occhi di Giovanna Mezzogiorno, splendida interprete di Adriana, segnata dalla sensazione di scivolare sul piano inclinato di una realtà sempre più inconoscibile.
Napoli velata
regia di Ferzan Ozpetek
con Giovanna Mezzogiorno, Alessandro Borghi, Peppe Barra, Anna Bonaiuto, Lina Sastri, Isabella Ferrari, Luisa Ranieri
produzione Italia, 2017
(1) John Keats, Bright Star