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Il mondo della salute mentale a 40 dalla legge Basaglia

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Perché occuparsi di manicomi a 40 anni dalla legge Basaglia? I manicomi in Italia sono storia del passato, ma la segregazione del “diverso”, del matto, fa ancora parte del nostro presente.
L’idea di questo lavoro è nata dall’incontro con Pina, Rossana e Sandro, i protagonisti del primo capitolo del nostro web-doc. Sono ex internati del manicomio di Roma, il Santa Maria della Pietà, che alla fine degli anni ’60 ospitava 3mila pazienti. Pina ci è entrata a 5 anni, Rossana a 22 e Sandro a 25. Negli anni ’50 e ’60 una diagnosi di malattia mentale era spesso una sentenza a vita. E infatti loro sono usciti solo quando il manicomio è stato chiuso, nel 1978, ma a casa non sono mai tornati. Negli anni sono stati trasferiti da una struttura ad un’altra e oggi vivono nella stessa casa di riposo. Questo ci ha spinto a voler approfondire come fosse avvenuta la transizione dalla legge Basaglia ad oggi.
L’altro incontro fondamentale è stato quello con Alice Banfi: lei è nata quando i manicomi erano già chiusi, ma quando da adolescente è stata ricoverata in diversi reparti psichiatrici pregava sua madre di non “lasciarla morire in manicomio”. Oggi è una pittrice ed è tra le poche persone che sono riuscite a testimoniare cosa succede oggi dietro le porte chiuse degli Spdc (i servizi psichiatrici di diagnosi e cura) e delle cliniche private.
Non ci sono più fili spinati e reti a separare le “città dei matti” dal resto della società, eppure resistono altre forme di esclusione: la maggior parte dei reparti psichiatrici in Italia sono a porte chiuse e un malato su dieci è legato al letto, la cosiddetta contenzione meccanica. Troppo spesso la “cura” si riduce a dosi massicce di psicofarmaci. La legge 180 ha ridefinito l’idea della pericolosità sociale e ha riconosciuto nel paziente psichiatrico una persona che non può essere privata del suo diritto di cittadinanza in un momento di sofferenza e di fragilità. Ma non basta una legge per liberarsi della paura dell’altro.
Sul titolo – “Matti per sempre” – abbiamo discusso a lungo: a metà del nostro lavoro avevamo deciso di cambiarlo, perché temevamo di rafforzare uno stereotipo. A convincerci ad usarlo è stata una frase che ci ha detto durante un’intervista Grazia Serra, la nipote di Franco Mastrogiovanni, morto di contenzione nel 2009: “Io non sopporto la parola matto, perché vedendo quello che è successo a mio zio, non escludo che un giorno possa capitare a me”.
Questo progetto –  che rischiava di rimanere solo un’idea – è stato alla fine realizzato grazie al Premio di giornalismo investigativo Roberto Morrione: è un web-doc che vuole indagare il mondo della salute mentale, attraverso reportage video, interviste audio, info-grafiche e gallerie fotografiche. Lo trovate qui: www.mattipersempre.it

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