Gogol a Firenze. L’acqua cheta di Augusto Novelli al Teatro Niccolini fino al 7 gennaio

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Chiunque si accostasse a questa versione de L’acqua cheta con in testa il pensiero della Regina di Carroll (avresti dovuto vedere com’era il Tempo ai miei tempi) non potrebbe che ritrovarsi sospeso nel vuoto in preda alla vertigine. Nessun ninnolo d’altri tempi, nessuna piccola cosa di pessimo gusto a rassicurare lo spettatore in cerca di mondi antichi e circoscritti. Troppo intelligenti e inquieti gli artisti/artigiani della Compagnia delle Seggiole per adagiarsi sulla riproposta pedissequa e compiaciuta di un biedermeier toscano nutrito di idilli e rificolone.

Scelgono infatti la versione originale di Augusto Novelli del 1908, evitando l’adattamento musicale di Pietri del 1920, e conducono l’operazione come agrimensori kafkiani o come ricamatrici di bianco, trascinando piano piano, un punto dopo l’altro, la vicenda del fiaccheraio Ulisse – misurata figura di burbero benefico -, della moglie Rosa e delle due figlie Anita e Ida, con i rispettivi innamorati, entro una cornice scenografica scarnificata e suggestiva (una grande albero di fico colpito da luci bronzee e dorate assai eleganti), da una dimensione ancora ottocentesca e patriarcale ad acuminate incursioni nella modernità.

Basta poco, ed è come se nel tranquillo scorrere della narrazione si aprissero dei tagli capaci di far passare venti assai gelidi, forse provenienti dal macabro paraedoardiano di Gorey. Basta una luce un po’ troppo bianca che nella notte colpisce in diagonale l’abito di Ida in fuga da casa, e si avverte la sensazione che sul palcoscenico si stia insinuando un vago malessere. Un’Ombra maligna, sintomo dell’irresistibile vocazione al gotico di questa Compagnia, che fa assumere persino a un testo locale come questo un’identità europea e un’estrema dignità letteraria e teatrale.

Disegno da “The doubtful guest” di Edward Gorey, 1957

L’esplosione della controllata follia nascosta nella commedia si ha nel terzo atto, quando l’allestimento prende un’andatura stralunata e sardonica, un passo più veloce e beffardo (qui i giorni e le notti ce li prendiamo per lo più a due o tre alla volta)[1], e appare la sagoma del “reporter del Fieramosca”, vestito d’un completo a quadretti con papillon. C’è della genialità evidente nel tratteggio con cui Marcello Allegrini disegna questo personaggio; potrebbe essere uno degli notabili o impiegati di Gogol, affetti da ansia unidimensionale, o addirittura un Naso in pieno deliquio egolatrico, con divisa da parata e baluginanti onorificenze appuntate al tessuto.

E diventa, questo reporter, anche un mezzo per continuare la critica contro gli aspetti deteriori dell’informazione massificata iniziata con il racconto di Poe Blackwood. La stampa (e, oggi, la tv e il web) intesa come entità mostrificata e manipolatoria che crea realtà apparenti e le montiplica all’infinito, facendole rimbalzare ed echeggiare in ogni angolo del pianeta. Quello stesso giornalismo (televisivo) incipriato, laccato, aggressivo e profondamente ignorante – intento a millantare condizioni metereologiche avverse durante un collegamento esterno per renderlo avvincente –, messo superbamente alla gogna da Julian Rosefeldt e Cate Blanchett nel film Manifesto.

regia Claudio Spaggiari
costumi Giancarlo Mancini
con Fabio Baronti, Marcello Allegrini, Sabrina Tinalli, Carolina Pezzini, Beatrice Faldi, Luca Cartocci, Andrea Nucci, Carlo Martelloni, Claudio Spaggiari, Brenda Potenza, Giovanna Calamai, Anna Collazzo
produzione Fondazione Teatro della Toscana
in collaborazione con la Compagnia delle Seggiole

luciatempestini0@gmail.com

[1] Attraverso lo specchio di Lewis Carroll


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