Mi torna in mente quella poltroncina nella tribuna del Delle Alpi, con una maglia bianconera appoggiata sopra e l’intero stadio in silenzio, ammutolito, attonito, quel pomeriggio, per un lutto che aveva sconvolto il capoluogo sabaudo e l’italia interna. Era il 26 gennaio 2003, una domenica d’inverno. Agnelli se n’era andato due giorni prima, all’età di ottantuno anni, e le esequie erano state affidate, in mattinata, al cardinale, nonché ex arcivescovo di Torino, Severino Poletto.
Ricordo ancora le due reti, bellissime, con cui Del Piero e Nedved stesero il Piacenza nel primo tempo di una partita senza storia, nella quale la Juve di Lippi era ascesa in campo per onorare la memoria del suo primo tifoso e aveva regolato la pratica nei primi quarantacinque minuti, ben sapendo che l’Avvocato aveva l’abitudine di abbandonare lo stadio nell’intervallo. L’appuntamento con la vittoria era stato rispettato, il senso di vuoto era enorme, al pari dello spaesamento collettivo che si respirava ovunque. Sedici mesi dopo se ne sarebbe andato anche il Dottor Umberto, ponendo fine a un’epoca e ad una stagione fra le più gloriose non solo per la Juventus ma per lo sport in generale.
La Juventus e la famiglia Agnelli: un binomio inscincibile, iniziato nel lontano 1923, quando un gruppo di squattrinati ma coraggiosi azionisti della società si recò in pellegrinaggio da Edoardo Agnelli per chiedergli di interessarsi alla propria creatura e questi accettò con entusiasmo, dando vita ad un sodalizio che ha regalato una messe di trionfi e di soddisfazioni ai tifosi di Madama nonché campioni come quelli che scandirono il quinquennio d’oro dei cinque scudetti consecutivi a cavallo fra il ’30 e il ’35.
E Gianni Agnelli, all’epoca bambino, aveva il privilegio di poter seguire da vicino quello squadrone, innamorandosi dei vari Combi, Rosetta, Caligaris e, in particolare, della splendida ala Federico Munerati, di cui era talmente appassionato che gli costò persino uno schiaffo, quando, sulla tratta ferroviaria che congiunge Roma e Torino, oltre al talentuoso calciatore, salì a bordo del treno, sul vagone letto, anche il Duca d’Aosta e il giovane Agnelli se ne disinteressò per correre ad abbracciare il suo idolo. Era troppo per suo padre che, non a caso, lo punì ma era anche perfettamente comprensibile, se ci pensate, che a un bambino interessasse molto di più il pallone delle dinamiche politiche, delle pratiche del galateo e dei rapporti da mantenere con la Casa reale.
Erano gli anni in cui i rampolli di casa Agnelli, per dirla con la sorella Susanna, vestivano alla marinara, gli anni del fascismo e delle smanie imperiali del Duce: non a caso, il Duca d’Aosta sarà uno dei futuri eroi dell’Amba Alagi.
Ho voluto raccontare questi aspetti per nulla secondari della vicenda umana di Gianni Agnelli per rendere bene l’idea di quale fosse l’immaginario di quegli anni e di quale percorso di formazione abbia seguito per diventare, a partire dal dopoguerra, uno degli uomini più famosi e apprezzati nel mondo.
Gianni Agnelli è stato un imprenditore coraggioso e un personaggio dalle mille sfumature, uno che conosceva gli avversari quasi meglio della propria fazione e vi sapeva trattare come pochi, uno che sosteneva l’esistenza delle fedeltà generazionali e detestava i cialtroni, uno che quando Biagi veniva cacciato da altri editori gli offriva sistematicamente un posto alla Stampa, uno che, narrano le leggende, rispose a Trapattoni, neo-allenatore juventino, che prima di rinforzare la squadra doveva pensare a sistemare i tremila cassintegrati che aveva alla FIAT.
Gianni Agnelli, lo stile dell’Italia migliore. Nonostante la brutalità e i metodi intollerabili dell’amministratore delegato Valletta, ebbe l’intuizione di carrozzare l’italia attraverso una macchinetta, la Cinquecento, realizzata su misura per i sogni di un paese ingenuo e desideroso di lasciarsi definitivamente alle spalle le macerie della guerra, approfittando anche della costruzione, proprio in quegli anni, dell’Autostrada del Sole e dando vita ad una delle più importanti operazioni economiche e commerciali di tutti i tempi. E fu anche un modo per redistribuire la ricchezza e venire incontro alle esigenze di categorie sociali fino a quel momento ignorate: possedere la macchina, infatti, divenne uno status symbol nonché il segno tangibile che il boom era entrato anche in casa propria, con i suoi aspetti positivi e i suoi aspetti negativi, dove i primi prevalevano nettamente sui secondi.
Gianni Agnelli, con la sua competenza, il suo garbo, le sue battute fulminanti, il suo orologio costantemente portato sopra il polsino, le sue cravatte al vento, le sue molteplici passioni e le sue telefonate all’alba, era uno di quei personaggi che se non fosse mai esistito, sarebbe stato necessario inventarselo. Perché si può anche discutere sulle idee dell’uomo, si può essere d’accordo o dissentire, ma non si può negare che avesse delle idee e un’abilità dialettica superiore alla media per sostenerle.
Oltretutto, è innegabile che, pur essendo un capitalista convinto, l’Avvocato fosse altresì un nemico giurato dei parvenu e dei predoni, così come è innegabile che, dopo la sua morte, i suddetti ciarlatani abbiano preso definitivamente il sopravvento, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.
Gianni Agnelli a capo di un impero, ultimo vero monarca di una storia industriale che si intreccia in maniera indissolubile con i destini del nostro Paese.
Un osservatorio autorevole e attendibile, dunque, al pari della vasta aneddotica di quanti, da Romiti a Colombo, hanno avuto l’onore di entrare in contatto con questo universo.
E ora che anche l’ultima nobile casata del nostro Paese ha cambiato volto e interpreti, permettete ad un irrecuperabile azionista, per nulla desideroso di redimersi, di esprimere la propria nostalgia, ben cosciente del fatto che con essa si costruisca poco ma, al tempo stesso, convinto che senza di essa, e senza la memoria che la genera, si sia più poveri e si viva peggio.
Caro Avvocato, non perdiamoci di vista, anche se quindici anni sono tanti e, mi creda, di tutto ciò che lei ha costruito, con fatica, passione e impegno, ormai è rimasto ben poco, se non i ricordi di chi, pur da avversario, sapeva di trovare in lei un interlocutore sempre attento, sufficientemente colto e, cosa più importante di tutte, curioso di osservare il mondo con gli occhi degli altri, pur ritenendo più attendibili i propri.
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