Ho partecipato con interesse alla prima riunione del 2018 del Direttivo di Art.21 che per me e per molti resta spazio fondamentale di confronto, uno di quelli che non ha mai deluso. Molti i temi trattati, fra questi, inevitabilmente anche l’avvicinarsi delle scadenze elettorali e le modalità con cui sarebbe necessario affrontarle. E per una volta – me lo permetterete – mi spoglio del ruolo per cui spesso sono stato ospitato sul “sito”, quello di persona attenta ai diritti umani dei più vulnerabili in altri luoghi del pianeta, di chi è costretto alle migrazioni forzate o a lottare contro regimi liberticidi che infestano il pianeta e provo a partire da noi, dal nostro paese e dalle modalità con cui si esercita o più spesso non si esercita, la libertà di stampa. E lo faccio dichiarandomi espressamente “partigiano”, persona politicamente attiva che sceglie e si schiera ma che si sente poco rispettato soprattutto nei circuiti mainstream, del servizio pubblico, negli spazi in cui si determina il consenso. E mi sembra di assistere ad un fenomeno paradossale: da una parte ci sono forze politiche che fanno dell’odio xenofobo, della nostalgia per il ventennio fascista, di un finto folklore che troppo spesso si traduce in spedizioni punitive nei confronti di cittadini migranti, in minacce ai giornalisti che denunciano la propria ragione sociale. Forze di questo tipo ormai fanno audience. I loro esponenti, magari in doppio petto, trovano spazio nei talk show televisivi in prima serata. Sono stati sdoganati come i loro messaggi razzisti e violenti. Sono giustamente etichettati come “il male” come il segno di un profondo imbarbarimento sociale, ma invece di proporre antidoti a tale pericoloso morbo si crede, a mio avviso errando, di poterli “normalizzare”, addomesticare, forse controllare esponendoli sotto i riflettori per poi proporre come alternativa, volti e messaggi apparentemente antitetici. Non condivido tale scelta. Senza affrontare le ragioni di un odio diffuso si finisce con l’amplificarne le ragioni e la presa su chi legge, vede, ascolta. Si mostra di certe organizzazioni anche il volto sociale e benefico, che però parte dal presupposto “prima gli italiani”, una affermazione che incontra oggi pochi contrasti.
Ma esiste un pezzo di paese, di cui umilmente faccio parte, come persona ma anche come organizzazione politica e come percorso (inutile celarsi, sono di Rifondazione Comunista e mi riconosco nel progetto “Potere al Popolo”), che insieme a tanti altri è destinato a non apparire, a non esistere. Parto dalla mia appartenenza ma credo che ciò valga per tante/i altre/i. Siamo sparsi su tutto il territorio nazionale, nei nostri circoli si fa accoglienza, assistenza sociale e legale, si tenta di stare dalla parte di chi in questo paese sta male indipendentemente dalla nazionalità, origine, cultura, religione. Per citare un dato, come Rifondazione Comunista, S.E. nello scorso anno oltre 61 mila persone che vivono in Italia hanno ritenuto opportuno donarci il loro 2X1000. Queste 61 mila persone raramente vengono a sapere dai media quello che facciamo e per quali ragioni. Da aprile scorso abbiamo un nuovo segretario che non è stato ancora mai invitato in nessun programma televisivo a discutere con gli altri leader politici. Siamo un pezzettino di paese e tanti altri ce ne sono: nel mondo dell’associazionismo laico e religioso, in quello di una politica che non è ridotta a comitato elettorale permanente, fra i sindacati e i necessari corpi intermedi. Sono, siamo, elementi essenziali di democrazia, con aspirazioni altre e con progetti che i cittadini comuni dovrebbero poter conoscere non solo prima di votare (già sarebbe molto) ma prima di rassegnarsi all’idea che l’impegno politico non serva più a nulla e che esiste solo chi urla più forte e in maniera sguaiata. È troppo chiedere, che a partire da questo breve e caotico periodo che precede le elezioni, ma per andare anche oltre, si dia spazio e visibilità anche a chi ha proposte da fare che non sono fondate sull’esclusione e la ricerca del capro espiatorio? A chi di fatto non si riconosce in un ristretto orizzonte di pensiero omologato ma crede nel motore rappresentato dalla pluralità? Lo chiedo a chi, come me, come molte/i di noi, considera l’accesso all’informazione e ai mezzi di comunicazione, un valore fondamentale e basilare per potersi definire democrazia.