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Contro le fake news il servizio della Polizia Postale. Intenzione apprezzabile, soluzione rischiosa e fuorviante

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L’iniziativa di contrasto alle fake news lanciata dal Ministro Minniti “con specifico riguardo al corrente periodo di competizione elettorale” richiede di essere analizzata con grande attenzione, senza confondere nel giudizio motivazioni addotte e strumenti proposti, e soprattutto senza illudersi che esistano facili scorciatoie.

C’è di buono che finalmente si esca da un approccio distratto o divertito ad un fenomeno che – lo avremmo dovuto capire da tempo, ammaestrati da vicende internazionali e nazionali – non merita sorrisi. La diffusione massiccia delle fake news può mettere in questione il funzionamento stesso della democrazia, perché droga i pareri che ciascun elettore ‘liberamente’ si forma. È lo stravolgimento del concetto stesso di opinione pubblica, è il corrompimento del ‘conoscere per deliberare’ caro a Luigi Einaudi. Dunque, sia come cittadini che come giornalisti la produzione di fake news non merita nessuna benevolenza in nome di una malintesa tutela della libertà di espressione.

Va bene anche che venga superata l’idea di delegare ai giganti del digitale, ai colossi privati della rete, le decisioni in materia. Se qualche azienda alimentare mette in distribuzione cibi avariati, non può essere lasciata solo ai gestori dei supermercati la scelta di ritirarli dagli scaffali: c’è un interesse della collettività da tutelare e sono autorità pubbliche a doverlo fare.

Ma qui finisce la lista degli apprezzamenti, e comincia l’elenco dei problemi – notevoli – che apre la soluzione prospettata dal Ministero. Innanzitutto per il soggetto chiamato ad intervenire. La Polizia Postale ha fatto un meritato pieno di elogi nei commenti di queste ore, data la diffusa stima per la professionalità di operatrici ed operatori. Resta però totalmente improprio attribuirle, in quanto direttamente dipendente dal Governo, il compito di certificare la fondatezza delle informazioni circolanti. Proprio per il riferimento esplicito dell’iniziativa alla competizione politica, molto più opportuno sarebbe allora chiamare in causa – come già hanno fatto Ordine dei Giornalisti e Fnsi, o esperti come Guido Scorza – l’Agcom, per definizione chiamata a garantire la correttezza delle comunicazione, in particolare in campagna  elettorale.

Ma non possiamo nemmeno illuderci che spostare dal sito della Polizia Postale a quello dell’Agcom il ‘bottone rosso’ delle segnalazioni basti a risolvere il problema. Che riguarda non solo il soggetto da far intervenire, ma anche l’oggetto da scovare e colpire. Quali sono la fake news, insomma? E quanto estensiva può esserne la definizione? Nessun dubbio quando parliamo di quei siti e account che sono produttori sistematici di false ‘notizie’, riprodotte spesso nella quantità e nella velocità minacciose che solo i cosiddetti bot possono dare. Centrali organizzate e potenti della disinformazione, che sanno unire fruttuosamente – per loro – interessi economici e finalità politiche.

Non sempre, però, il profilo degli spacciatori di falsità è così nitido e incontestato. Ci sono zone di confine, dai contorni meno definiti, sui quali in campagna elettorale l’uso del pulsante anti-fake può essere assai più controverso. Faccio un esempio che tocca da vicino proprio l’attività del Ministro Minniti. I dati ripetutamente diffusi dal Viminale attestano una costante diminuzione dei reati. Eppure non è affatto diminuita, nella propaganda di alcuni soggetti politici, il ricorso elettoralistico al  sempre efficace “allarme sicurezza”, spesso accompagnato da una litania di numeri che fanno a pugni con le cifre ufficiali e che dovrebbero consolidare l’immagine del Far West italiano. La tentazione di premere il ‘bottone rosso’ è forte, bisogna ammetterlo. Ma quale sarebbe l’effetto sulla competizione elettorale? Si può pensare ad una sconfessione ufficiale di certe campagne politico-mediatiche?

Scorciatoie non ne esistono, dunque. All’uso delle falsità nella lotta politica non bisogna certo rassegnarsi, ma si deve avere chiaro che l’intervento delle autorità – in ogni caso ‘terze’, come è l’Agcom – può risolvere solo una parte di un problema grande: la facilità con la quale le fake news attecchiscono. Un problema culturale, prima ancora che direttamente politico, e che dunque richiede un lavoro paziente e profondo, dai tempi inevitabilmente lunghi. Da parte della scuola, come si è cominciato a fare, per diffondere tra i ragazzi maggiore senso critico rispetto alla miriade di stimoli che la rete propone. E da parte del mondo dell’informazione. Perché assieme a tanti aspetti negativi l’esplosione del tema fake almeno un aspetto positivo ce l’ha: è la migliore campagna che si potesse realizzare a favore del giornalismo professionale, dopo anni di elogio diffuso della disinformazione. Un’occasione storica, forse una delle ultime. Gli editori avranno voglia di coglierla?


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