Calenda e Renzi, due procedure diverse con un unico scopo: privatizzare la Rai

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Che Renzi avesse voglia di abolire il canone Rai non è certo un fulmine a ciel sereno! Dopo aver imposto un prelievo dal canone di abbonamento di 150 milioni di euro per altri scopi, del tutto diversi dal finanziamento del servizio pubblico; dopo averlo ridotto e depauperato del cosiddetto extragettito, non certo destinato alla Rai; ora, in coerenza col resto, annuncia l’abolizione di una “brutta tassa”. Abolendo il canone – questo è il ragionamento – la Rai non avrebbe più vincoli nella raccolta pubblicitaria e Mediaset, il principale concorrente, ne farebbe le spese.

Tutto questo, nello stesso momento in cui le principali emittenti commerciali (Mediaset e La7) invocano a gran voce proprio una fetta di canone per la propria programmazione, che, a loro giudizio, è già di servizio pubblico!

Nel periodo di transizione dal canone al mercato pubblicitario pieno, servirebbero alla Rai, secondo Renzi, un miliardo e mezzo di euro all’anno (per quanti anni?) per ammortizzare lo shock finanziario subito dalla concessionaria del servizio pubblico. Questo finanziamento sarebbe a carico del Governo, quindi in linea con il precedente tentativo di Renzi di includere RAI nelle società pubbliche di cui all’elenco ISTAT, quelle il cui bilancio forma il consolidato dello Stato che è gestito dall’Esecutivo.

E poiché si tratterà di dare soldi pubblici alla Rai non più da un’imposta di scopo, ma, dal budget pubblico indistinto (fiscalità generale), non è difficile immaginare che anche le istanze, sinora disattese, delle emittenti private sulla torta delle risorse destinate a finanziare il servizio radiotelevisivo troveranno più attenta considerazione.

Il Ministro Calenda ha immediatamente criticato l’annuncio di Renzi, notando che i soldi, presi dal canone o dal bilancio pubblico, sarebbero pur sempre prelevati dai cittadini. Ha quindi bollato l’iniziativa come una partita di giro che si risolve in una presa in giro. Al tempo stesso, Calenda è il principale fautore della privatizzazione della Rai (quindi, più o meno, con le stesse conseguenze del piano di Renzi).

Sembrano quindi Renzi e Calenda due predatori che si contendono la medesima vittima: l’uno vuole sottrarla all’altro non per difenderla ma per poterne mostrare lo scalpo.

Tuttavia, la riforma legislativa della Rai è stata di recente approvata, e grazie al Governo Gentiloni (del quale Calenda è il Ministro dello sviluppo economico, ente concedente) è stata assentita alla Rai la nuova Concessione; inoltre, poiché la nuova Convenzione è stata sottoscritta, la Commissione di vigilanza ha dato il suo parere e il nuovo Contratto di servizio è in dirittura di arrivo, salvo sorprese dell’ultim’ora.

In campagna elettorale si dimentica qualsiasi principio, anche di rango costituzionale, ma è appena il caso di ricordare che la normativa sul servizio pubblico radiotelevisivo, peraltro elaborata sulla base di numerose sentenze della Corte costituzionale, si radica sui valori della Carta fondamentale della quale nel 2018 si celebra il settantesimo (vedi l’iniziativa celebrativa di Articolo 21 coordinata e diretta da Renato Parascandolo).

Il canone, per quanto possa essere “brutto”, non è una tassa bensì un’imposta e la differenza richiama una partecipazione non occasionale del contribuente alla spesa pubblica. E’ peraltro un’imposta di scopo e ciò significa che il Governo non può gestirla a suo piacimento, essendo una somma dedicata alla specifica funzione anche a tutela dell’indipendenza e imparzialità della programmazione. L’indipendenza e l’imparzialità garantiscono la libertà d’espressione di cui all’art. 21 della Costituzione, riconosciuta a tutti, e non ai soli cittadini, a fondamento del servizio pubblico radiotelevisivo.

Per la stessa ragione il servizio radiotelevisivo per la collettività nazionale è pubblico e non può essere privato, poiché i centri decisionali della programmazione non possono far riferimento all’interesse privato, ma devono essere rappresentativi, per quanto possibile, dell’intera comunità di cittadini, attraverso il collegamento con meccanismi elettorali.

Tale collegamento è stato stabilito espressamente: non a caso il compito dell’indirizzo e vigilanza del servizio pubblico radiotelevisivo, sin dal 1975 anno della cosiddetta parlamentarizzazione del servizio pubblico, è affidato a una commissione parlamentare, bicamerale, costituita per legge e non per ordinamento domestico delle due Camere; inoltre, la nomina della maggioranza dei componenti il Consiglio di amministrazione della Rai è delle due Camere e non del Governo.

Nulla è perfetto e dunque non lo è neppure il sistema del servizio pubblico radiotelevisivo; tuttavia, è un’istituzione che, come si diceva, dal 1975 sino a oggi, in qualche modo, si è fatta carico di rappresentare il Paese in forma pluralistica. Sempre meglio che far decidere ai dirigenti di Mediaset e La7, quando un programma è di servizio pubblico.


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