Cinquant’anni dalla tragedia del Belice e alcune vittime di quel maledetto terremoto ancora non hanno visto la ricostruzione tante volte promessa. Cinquant’anni e la sensazione che in Italia non abbiano mai dignità gli ultimi e i deboli mentre i responsabili morali, e talvolta anche materiali, di determinati misfatti non pagano mai o pagano quando ormai non ha più senso, in quanto il sangue si è ormai seccato e la memoria collettiva è ormai svanita.
Cinquant’anni e lasciatemi parlare anche un po’ di noi e del nostro lavoro perché ho rivisto la conduzione di Piero Angela e i reportage dalla Valle del Belice di Sergio Zavoli: poesia pura, con la competenza che si mescola amabilmente alla pietà, al coraggio di una narrazione straziante ed estremamente rispettosa, che accompagna gli eventi e li prende quasi per mano, con una delicatezza, una maestria e un senso della sofferenza umana che senz’altro derivava anche dal fatto che Zavoli avesse conosciuto da vicino gli orrori della guerra, le sue devastazioni, la sua barbarie e le sue maledette conseguenze.
Cinquant’anni e vien da chiedersi come verrebbe raccontata oggi una mattanza del genere, anche se ce l’abbiamo ben presente, avendo assistito alle polemiche in diretta relative ai terremoti dell’Aquila, di Amatrice e delle Marche, con scambi incrociati di accuse, mancate assunzioni di responsabilità e uno scaricabarile mediatico non meno imbarazzante di quello politico.
Cinquant’anni e un senso di sconfitta che ci pervade ancora, cinquant’anni e la disperazione di chi non vede un domani per sé e per la propria famiglia, cinquant’anni e un pianto senza fine, in una terra magnifica e mal amministrata, abbandonata a se stessa e condannata ad una solitudine esistenziale i cui esiti sono sotto gli occhi di tutti. Cinquant’anni e l’amara sensazione che nulla sia cambiato; anzi, che molte cose da allora siano nettamente peggiorate.
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