Albino Longhi, scomparso a capodanno, è stato il servizio pubblico, come in una definizione da manuale. La vicenda del pacato giornalista mantovano si è a lungo incrociata, infatti, con la Rai. Della faccia dell’azienda dedita al bene comune e non di quella succube delle culture commerciali. Informazione di precisione, indipendente e capace di trasgredire –come ricordò Barbara Scaramucci quando nel 2012 gli fu attribuito da “Articolo21” il premio Giuntella- le indicazioni del direttore generale (Biagio Agnes): per trasmettere in piena crisi internazionale una fresca intervista a Gheddafi di Enzo Biagi.
Direttore del Tg1 tre volte: dal 1982 al 1987, nel 1993, dal 2000 al 2002. E, nelle sue stagioni, la principale testata di viale Mazzini ha avuto un segno inconfondibile: leale verso i governi, ma con misura e rigore. Del resto, nella cabina di regia del tg sedeva Roberto Morrione, che rese quello stile una macchina invidiabile: e proprio del premio intitolato a lui Longhi fu il primo presidente.
Dopo la conduzione dell’Arena di Verona, Longhi nel primo esecutivo Prodi del 1996 andò a Palazzo Chigi a curare l’immagine della presidenza, contribuendo a rendere equilibrata la fisionomia di un governo che doveva cancellare la sgradevolezza della precedente compagine di Berlusconi. Senza urla e con ferma dolcezza. Nel curriculum stanno pure la vicedirezione generale della Rai, la direzione delle Tribune politiche, nonché delle sedi della Sicilia e del Friuli-Venezia Giulia. Senza boria o narcisismi.
La scomparsa di Albino Longhi cade in un momento delicato. Le strategie della Rai sono incerte, come flebile è la politica sui media. Il venir meno dell’essenza profonda della Rai riformata è un pezzo delle difficoltà. Riprendere il filo del carattere informativo e insieme formativo del servizio pubblico è la lezione che ci lascia una persona mite, ma sorretta da una schiena dritta, di marmo.