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“A futura memoria”: dopo quasi 24 anni cerchiamo ancora la verità sull’omicidio Alpi-Hrovatin

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“A futura memoria”: è riprendendo le parole di Luciana Alpi, la madre di Ilaria, che rilancio questo mio articolo, pubblicato nel luglio scorso in seguito alla decisione della Procura di Roma di archiviare il caso, come se la famiglia non fosse già stata oltraggiata abbastanza. Non c’è giorno che passa nel quale non domandiamo giustizia per una vittima, di mafia o di strage, che dopo anni nel nostro Paese non ha ancora trovato pace. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ne sono anch’essi l’esempio e bisogna ricordarsene anche oggi che non ricade alcun anniversario. Dal 20 marzo 1994 la notizia è sempre la stessa. Poche nel corso del tempo le delucidazioni circa quel che realmente avvenne quel giorno a Mogadiscio, in Somalia.

L’unica cosa certa è che la giornalista italiana Ilaria Alpi, inviata del Tg3, insieme al suo operatore Miran Hrovatin, sono stati uccisi. Si scoprirà che non è stato un caso, le pallottole che li hanno raggiunti alla testa non erano vaganti. Ma su movente e mandanti, la verità ancora non è stata illuminata.

“Depistaggi di Stato”

Nel periodo in cui la Corte d’Assise d’Appello di Roma condannò all’ergastolo Omar Hassan Hashi con l’accusa di duplice omicidio, ci fu la rivelazione da parte della Digos di Udine di alcune fonti segrete che avrebbero ammesso, in una documentazione ufficiale, i nomi dei mandanti, il movente svelato su quei traffici illeciti sui quali la Alpi stava indagando, parlando di una riunione in cui si era deciso il piano d’esecuzione. Eppure la Digos pur di proteggere l’identità delle sue fonti si appellò all’articolo 203 del codice di procedura penale, rendendole di fatto nulle. Ma la vicenda, il fatto, la tragedia, il caso, si costruì fin dal suo evento. L’inchiesta della Procura inizierà solo due mesi dopo l’accaduto e all’inizio molte delle cose che furono raccontate vennero poi smentite. Come ad esempio quel fatto per nulla trascurabile di non aver chiamato i soccorsi, perché come disse in un’inchiesta di <> Milena Gabanelli: “Ilaria era ancora viva, ma nessun medico è mai arrivato”. Oppure quei bagagli aperti e quei referti medici mai arrivati a Roma, secondo il Generale Fiore furono i carabinieri a prelevare i corpi e i bagagli, ma questa asserzione venne presto smentita. I bagagli con all’interno oggetti, come taccuini, cassette registrate e una macchina fotografica, furono presi dai colleghi giornalisti accorsi in Somalia e portati al Porto Vecchio sulla nave Garibaldi, lì dopo l’inventario fatto dalle forze dell’ordine, il carico si spostò in Egitto a Luxor per poi fare la tappa finale a Roma, dove i bagagli arrivarono però senza sigilli. Fin da subito apparve chiaro che non si trattava solo di un duplice omicidio. Si parlò subito di un’esecuzione, di un intento volontario volto a uccidere, eppure l’autopsia sul corpo di Ilaria Alpi (a differenza di quella di Hrovatin che venne fatta subito) verrà richiesta solo due anni più tardi dal magistrato Giuseppe Pititto, il quale aveva richiesto anche una perizia balistica per rivoltare quella fatta dal suo predecessore De Gasperis. Anche qui la chiarezza ordinaria si scontrò pietosamente con quella giudiziaria: ci vollero più perizie balistiche per accertare, contro ogni illazione, che non si potesse escludere l’esecuzione.

Nel 1994 la storia della Somalia è intricata, come racconta Lisa Iotti nel film “Ilaria Alpi, l’ultimo viaggio” prodotto da Magnolia con la Rai sotto la regia di Claudio Canepari e Gabriele Gravagna, “in quegli anni” – racconta Iotti – “è una terra persa, c’è la guerra civile, un intervento militare mascherato da aiuto umanitario, una tremenda carestia, ma c’è anche qualcos’altro: uno scenario fatto di traffici illeciti”. Traffici illeciti che corrispondono al contrabbando di armi e ai rifiuti tossici nocivi, alla mala cooperazione, ai miliardi trasferiti da Bettino Craxi ai signori della guerra somali, sarebbe questa l’inchiesta su cui stava lavorando Ilaria Alpi e per farlo, avrebbe avuto l’aiuto di un informatore del Sismi, in pratica i servizi segreti italiani. L’informatore, da quanto si apprende dalle notizie depositate, sarebbe stato il maresciallo Vincenzo Licausi, anche lui deceduto a Mogadiscio, nel novembre del 1993 di morte violenta. Ilaria Alpi quattro giorni prima dell’assassinio venne minacciata di morte, è quanto si apprese durante il processo grazie ad una informativa scritta da una agente del Sismi, tale Alfredo Tedesco, il quale però in udienza visibilmente tirato dichiarò di non ricordare da chi avesse avuto quelle informazioni. Il Sismi perciò aveva deliberatamente occultato qualcosa che sarebbe stato utile ai fini delle indagini.

Nello specifico, grazie all’inchiesta di Sabrina Giannini per <> sappiamo che Ilaria stava indagando su un presunto traffico di armi dall’Italia alla Somalia e su una compagnia italosomala, la Shifco, che aveva avuto in prestito cinque pescherecci dalla cooperazione italiana. Il giorno in cui venne minacciata, il 16 marzo 1994, la Alpi intervistò a Bosaso, nel nord della Somalia, il sultano Bogor. In quel frangente, una delle navi della Shifco era stata sequestrata dai miliziani del sultano e pare che la flotta di quella nave lavorasse per i servizi segreti italiani. Solo al magistrato Pititto venne in mente di andare a sentire cosa aveva da dire al riguardo il sultano che poi venne inserito nel registro degli indagati, ma egli fu esonerato dal procuratore capo ancor prima di poter accertare gli eventi, segno di stare seguendo una giusta pista che però non venne considerata dal suo successore Franco Ionta.

Durante le indagini, nonostante i favoriti depistaggi di Stato e gli insabbiamenti da parte dell’allora polizia somala organizzata dallo Stato Italiano, due furono i nomi che comparvero più spesso con ruoli non del tutto marginali. Giancarlo Marocchino, l’imprenditore che era presente nel momento dell’accaduto, che si scoprì non solo fornitore di benzina, ma probabile tramite delle truppe italiane in Somalia, era stato accusato nel 1993 di trafficare in armi ed aveva lasciato il paese per sfuggire all’arresto, peccato che quattro mesi dopo vi era rientrato con venti guardie del corpo al seguito. Un fatto che secondo il suo difensore, l’avvocato Stefano Menicacci, non sussiste. Il secondo nome apparso era quello di Giampiero Sebri, figura di spicco nel traffico di armi e nei rifiuti tossici ad Haiti, che accusò Marocchino di aver “sistemato in Somalia quella maledetta giornalista comunista” il quale lo querelò per calunnie nel 2003. In quello stesso anno, Ahmed Ali Rage detto “Gelle”, fu il teste accusatore di Hashi che lo imputò come uno dei sette appartenenti al commando che commise l’omicidio. Nel 2015 Gelle dichiarerà ai microfoni della trasmissione di Federica Sciarelli <> di aver dichiarato il falso perché era stato pagato per mentire, dunque Hashi venne poi assolto da tutte le accuse nell’ottobre 2016 ritenuto innocente.

Se si archivia la giustizia

Nonostante la Corte d’Appello di Perugia avesse dichiarato nel gennaio 2017 che sussistessero condotte che generano “sconcerto” riferendosi alle indagini sul duplice omicidio, il 4 luglio scorso i giornali hanno titolato della decisione della procura di Roma di avanzare una richiesta di archiviazione del caso, su visto del procuratore Giuseppe Pignatone e firmato dal Pubblico Ministero Elisabetta Ceniccola ritenendo che ad oggi, dopo quasi 24 anni, non ci siano prove di presunti depistaggi e vi sia oltremodo l’impossibilità di risalire a moventi e mandati. In risposta, il 13 luglio scorso ben 252 parlamentari si sono riuniti alla Camera dei Deputati, insieme alla FNSI e alla madre di Ilaria, Luciana Alpi, per firmare contro l’archiviazione e chiedere al Gip Emanuele Cersosimo che ha in mano la decisione, di far luce sulla reale verità.


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