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ThyssenKrupp: non chiamatele morti bianche

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Dieci anni fa, a Torino, nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007, si sviluppava, presso un impianto siderurgico dell’acciaieria ThyssenKrupp, il rogo che pose tragicamente fine alla vita di sette operai. Uno solo si salvò: Antonio Boccuzzi, attualmente deputato del Partito Democratico.

Un dolore enorme e uno strazio difficile da descrivere a parole, in un dramma che non può continuare ad essere derubricato alla voce “morti bianche”, così come non c’è nulla di bianco nelle morti degli operai di Casale Monferrato a causa dell’amianto e in qualunque altro disastro sul lavoro: episodi, purtroppo, assai frequenti in un Paese in cui una volta un ministro dell’ultimo governo Berlusconi arrivò a sostenere la tesi secondo cui le vittime nelle fabbriche e nei cantieri fossero il prezzo da pagare per garantire lo sviluppo economico del Paese.

È questa mentalità ad aver avvelenato e privato di ogni dignità intere categorie; è quest’idea barbara che la morte di un operaio costituisca una sorta di sacrificio umano da compiere sull’altare della crescita ad averci reso una Nazione fragile, in cui i dati delle morti sul lavoro sono paragonabili ad un bollettino di guerra e in cui non c’è abbastanza rispetto per la sofferenza non solo delle vittime ma, più che mai, dei loro cari, privati di ogni sostegno morale ed economico.

Troppi ne abbiamo visti, documentati e seguiti di questi casi, e ogni volta abbiamo ribadito che non ne possiamo più di certe diciture ipocrite, di certe edulcorazioni, di un certo lassismo, della stupida indifferenza di chi racconta questi episodi con distacco e della falsità di chi, al massimo, dà vita ad un minuto di silenzio o invia una corona di fiori sul luogo del delitto ma poi non muove un dito per arginare, se non proprio arrestare, questa carneficina.

A tal proposito, il rogo della ThyssenKrupp, al pari delle sostanze tosssiche e cancerogene respirate dagli operai inconsapevoli al centro delle indagini e del sequestro dello stabilimento Marlane di Praia a Mare e delle sentenze relative ai morti per amianto a Casale Monferrato e non solo, ha avuto il merito di squarciare un velo nella coltre di silenzio che ha spesso coperto queste vicende, di conquistarsi uno spazio mediatico e di immettere questo tema essenziale per il futuro del Paese all’interno di un dibattito pubblico ormai ridottosi ad uno stanco scontro di ego e istrioni senza uno straccio di proposta concreta da presentare a chi vive la realtà quotidiana dello sfruttamento e delle vessazioni sui luoghi di lavoro.

Se a ciò aggiungiamo il fenomeno del caporalato e la vergogna cui abbiamo assistito, in questi anni, nelle campagne pugliesi e siciliane o nelle zone intorno a Latina o nella Calabria profonda di Rosarno e dintorni, ecco che il fenomeno si delinea ai nostri occhi nella sua bruciante attualità e indecenza, inducendoci a riflettere su una condizione complessiva non più sostenibile e su un aspetto da porre sullo stesso piano e da affrontare con lo stesso vigore del sacrosanto ripristino dell’articolo 18 e di una mirata estensione dei diritti contenuti nello Statuto dei lavoratori.

Torino, dieci anni dopo, e il pensiero va inevitabilmente a Santo Della Volpe: un amico, prim’ancora che un collega, che mi ha insegnato a scrivere di questi argomenti, ricordandomi ogni volta il nostro dovere di non lasciare soli gli ultimi in lotta per i propri diritti e per la propria libertà dal bisogno.


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