Attenzione. Un mostro si aggira nelle cose della politica. La cosiddetta “profilazione” dei cittadini, avvolti quotidianamente da una cupola di sensori in grado di schedare ogni movimento e –nel contempo- prodighi di notizie e confessioni private rese ai social con ingenua noncuranza. La costruzione della nostra identità digitale (a noi ignota, ma conosciuta alle società che fanno il mestiere degli influencer) è cruciale nelle odierne campagne elettorali. Conta assai di più dei vecchi media, a cominciare dalla televisione. Quest’ultima, ovviamente, continua a pesare e guai ad abbassare la guardia sul pluralismo e sulla par condicio. Tuttavia, proprio gli Stati uniti, che furono il luogo di coltura delle teorie sugli effetti della comunicazione classica nel e sul clima di opinione, sono stati l’avamposto delle aggiornate modalità di condizionamento del voto. Trump ha vinto anche per questo. Sta emergendo con cinica nettezza la geometrica potenza dei grandi aggregatori di dati, da Google a Facebook a Twitter. A suon di milioni di dollari furono acquisiti dallo staff del candidato repubblicano centinaia di migliaia di profili degli utenti. Gruppi come l’inglese “Cambridge Analytica” sono in grado di ricavare dai post o dai 140 caratteri –incrociati adeguatamente e studiati con tecniche di riconoscimento dei comportamenti che vediamo applicate nelle fiction poliziesche- gli orientamenti delle persone. Le inquietanti previsioni fatte dagli analisti riguardano proprio l’Italia, perfetto luogo di sperimentazione e di affinamento delle procedure. Non è un caso che a protestare di più (ora) sia il gruppo di Mediaset, che vede usurpato il suo primato conquistato negli anni ruggenti della deregulation e della debolissima normativa sul conflitto di interessi.
E poi, già è successo qualcosa di brutto sui dati sanitari, acquisibili di fatto dai gruppi sovranazionali.
Insomma, i social sono da tempo usciti dall’età dell’innocenza e sono l’oggetto del desiderio dei nuovi potenti della terra, fratelli gemelli dei poteri finanziari: ringalluzziti dalla crisi delle istituzioni e dei luoghi della rappresentanza. Ciò che viene chiamato “post-democrazia” o è relegato nella categoria di comodo dei “populismi” riguarda –invece- il tessuto nervoso della società e la sua tenuta. E ha a che fare con i rischi di autoritarismo.
Altro che occuparsi di fake news, problema reale ma nettamente enfatizzato. Forse proprio per deviare l’attenzione dai nodi oscuri e conflittuali della rete.
Opportunamente l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha istituito un “tavolo”, che non va inteso -però- come pura diplomazia. E’ indispensabile piuttosto un atto impegnativo sottoscritto dagli Over The Top, un codice di autodisciplina che abbia in testa la trasparenza e la conoscibilità degli algoritmi che presiedono al trattamento dei ghiotti profili dei cittadini-sudditi. Se non si interviene in queste settimane si corre il rischio concreto di assistere ad una manipolazione senza precedenti della vicina scadenza elettorale.
“Spegnete i social”: potrebbe essere lo slogan di una resistenza non doma e di una presa di coscienza civica. Se non interviene qualche tutela impegnativa della cittadinanza. Nessuna forma di censura, ovviamente. Serve, però, un’azione decisa contro gli usurpatori a fini di profitto della libertà, della bellezza, dell’indipendenza della repubblica di Internet. Viene un legittimo dubbio. Qualcuno dei partiti si è già buttato nell’affare?