E’ stato votato il parere dovuto dalla commissione parlamentare di vigilanza sul contratto di servizio Stato-Rai, che ora torna al governo per il varo definitivo previsto prima di Natale. Il testo non si discosta granché da quello che già si è avuto modo di commentare. In breve, l’articolato risalta per il continuiamo con il passato. Ed è chiaramente frenato da un clima freddo se non ostile. E sì, perché il vituperato “partito-rai” non esiste più, da tempo. Vale a dire quel complesso di forze politiche e culturali che aveva a cuore le sorti del servizio pubblico, sentimento perseguito anche con eccessi corporativi e con il peccato della lottizzazione. Tuttavia, per anni l’azienda di viale Mazzini è riuscita a reggere il colpo. Nel caso del gruppo Fininvest-Mediaset –a fasi alterne competitore o alleato- vi era sullo sfondo il conflitto di interessi mai seriamente regolato. Ecco, il contratto di servizio –nella sua debolezza “strategica”- è un indizio di un clima mutante.
Infatti, nella stesura, appena ritoccata dal parere della commissione di vigilanza, non si trovano o non sono compiutamente affrontati alcuni nodi cruciali. E’ il servizio pubblico un pezzo di un’alternativa pubblica nell’aggregazione dei dati rispetto ai vari Google? Come dialoga, al di là della retorica o dei richiami deontologici, con l’universo della rete che ci interpella –ora che è finita l’età dell’innocenza- su come il vecchio mondo generalista si deve trasformare comprendendo le nuove attitudini del consumo? E poi il brutto affare degli agenti, che spadroneggiano nella programmazione delle reti, o il superamento di una nomenclatura dei generi degna della mediologia del dopoguerra. Ancora: la lotta al precariato. Non si tratta di incertezze o timidezze. La verità è che la Rai è scesa di rango nella geopolitica, sempre meno considerata la punta di diamante del consenso. Ci sono occasioni, apparentemente minori, che raccontano come stanno le cose. E questa è una, come un’altra è il trattamento poco felice riservato al settore pubblico dalla legge di bilancio, che contiene assurdamente una miniriforma delle frequenze nel variopinto contenitore della norma finanziaria. Non solo. Il sintomo della discesa di una delle facce del “duopolio” è la crescente spavalderia di Mediaset. In una recente intervista Pier Silvio Berlusconi ha fatto rullare i tamburi, andando dritto al punto: la Rai con la pubblicità non va bene. Vecchia storia, che ora viene rilanciata perché in un periodo di vacche magre qualche decina di milioni di euro è utile per ripianare le perdite delle avventure calcistiche. Il grido di dolore si concretizza in azioni concrete. Gli emendamenti (respinti o ritirati) di Forza Italia in commissione di vigilanza tesi a interpretare il limite del 4% settimanale sulla raccolta di spot non sul complesso dell’offerta (come interpretò, dopo la legge Mammì, la relazione al parlamento nel 1992 dell’allora Garante Santaniello), bensì per ogni singolo canale, sono un indizio.. Uno scherzo da 100 milioni. Cui si aggiunge un atto di indirizzo proposto nella stessa commissione persino su sconti e linee di vendita delle inserzioni (e l’autonomia aziendale?). Ancor più netto è l’esposto presentato dal biscione all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni su omologa materia.
Sullo sfondo il matrimonio –dopo le baruffe- con Tim e Vivendi. Dal “duopolio” al monopolio e mezzo, più i comprimari ridimensionati di Sky e La7. Si prefigurano scenari politici, in tutta evidenza.