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Militari argentini condannati. Una società divisa dalla frattura etica

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La giustizia argentina ha condannato ieri con 29 ergastoli e pene carcerarie tra gli 8 e i 25 anni, 48 ufficiali della marina militare colpevoli di gravissimi crimini contro l’umanità compiuti negli anni dell’ultima dittatura, tra il 1976 e l’83. La sentenza del Tribunale Federale di Buenos Aires giunge a conclusione di un processo durato 5 anni e a molti decenni dal non meno severo giudizio contro la giunta dei comandanti in capo. Colpisce alcuni responsabili già noti e condannati per atroci delitti di sequestro, tortura e assassinio; ma per la prima volta, anche figure sfuggite finora al castigo, quali 2 dei 14 comandanti dei “voli della morte”, piloti degli aerei che hanno scaraventato nelle acque del rio de la Plata centinaia di prigionieri resi semincoscienti da sommarie anestesie.
Nell’aula giudiziaria in cui è stata letta la sentenza, è stata inscenata un’immediata, doppia e opposta manifestazione. Da una parte, evviva alla giustizia compiuta (secondo alcuni, però: non del tutto, non ancora…), cartelli e canti di soddisfazione di familiari e amici delle vittime, dei loro avvocati, dei pochi ma tenaci sopravvissuti che hanno dato corpo alle accuse, di esponenti dei gruppi di difesa dei diritti umani. Dall’altra, compagni d’armi e parenti dei condannati, militari in pensione, qualche bandiera e note dell’inno nazionale, invocazioni alla Patria. Da parte di alcune mogli di militari reclusi la rivendicazione di “diritti umani” anche per i loro mariti. Contrapposizione che fotografa una frattura culturale e sociale che non interessa solo l’Argentina.
A distanza di decenni dal ripristino delle istituzioni democratiche, sembra comprensibile che in Argentina, in Sudamerica e anche in Europa, dove oltre alla distanza del tempo c’è di mezzo un oceano, qualche pezzo d’opinione pubblica si stupisca e stigmatizzi questo protrarsi dell’azione giudiziaria, che alimenterebbe animosità, risentimenti, odi, quindi l’instabilità sociale. Dal punto di vista del diritto, l’obiezione è semplice: l’azione giudiziaria è obbligata dalla legge, che tutela tanto l’accusa quanto la difesa. La questione mantiene nondimeno una dimensione etica, che non si esaurisce con il richiamo all’imperio della legge. E neppure ricordando che la dittatura nega per sua natura qualsiasi garanzia di ordine tanto morale quanto materiale.
Il confronto tra gli opposti punti di vista deve dunque passare per i sistemi che in complesso regolano gli stati e le società civili. Queste ultime sono sempre animate da sentimenti contraddittori, perché esprimono interessi diversi che la politica deve rendere di volta in volta compatibili. E’ arbitrario attribuirgliene uno solo, bellicoso o al contrario pacifista. La pace, fondamento della convivenza, non è il “vitello d’oro”, da adorare come un idolo; bensì una condizione della società che va costruita a partire da una verità comprovata e condivisa nei fatti, attraverso l’equità e il rispetto della pluralità d’interessi e sentimenti. I militari e le loro istituzioni coinvolti nell’ultima dittatura dovrebbero facilitare questo processo, ma non lo fanno.
L’ex ammiraglio Emilio Massera, capo e simbolo non solo della Marina ma anche dello spirito più fanatizzato dell’avventura golpista argentina, disse invece: ”Mi sento responsabile, non colpevole!”. Intendendo con ciò rivendicare il suo operato criminale, compiuto in nome di una Patria che in realtà solo rispondeva agli interessi di un progetto e di bande fuori legge. Del resto responsabile, dall’imperatore Costantino in poi significa cosciente delle proprie azioni e delle loro conseguenze. Non vi è dubbio che Massera lo fosse, così come tutti i suoi alleati e complici dentro e fuori le Forze Armate (compresa la P2 in Italia). Neppure la kantiana etica dell’intenzione (che ne verifica la coerenza con i fatti provocati) attenua le loro colpe, in quanto le conseguenze furono quelle dichiarate e volute.
Dal quel labirinto di crudeltà e sofferenze, l’Argentina del presidente Raul Alfonsin seppe uscire in maniera esemplare portando a giudizio i comandanti della dittatura, condannati sulla base di prove inoppugnabili. L’opera di ricomposizione del patto sociale che deve presiedere la legalità delle istituzioni, ha attraversato da allora fasi alterne e resta lontano dall’apparire compiuto. Per il suo valore storico, questa sentenza della magistratura ordinaria nondimeno lo consolida. “Riaprire le ferite è doloroso ma indispensabile, le ferite vanno pulite, disinfettate. Soltanto dopo si comincia a guarire”, ha detto il primate della Chiesa Anglicana del Sudafrica e premio Nobel per la Pace Desmond Tutu, che ha presieduto la Commissione per la Riconciliazione nel suo tormentato paese.


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