Da secoli la Santa Sindone, il lenzuolo che secondo la tradizione cristiana avrebbe avvolto il corpo di Cristo appena deposto dalla croce, è al centro di un dibattito che da una parte vede la Chiesa cattolica sostenerne l’autenticità, dall’altra il mondo scientifico che è di avviso contrario: secondo le rilevazioni fatte nel 1988 da tre istituti scientifici in Europa e in America con l’impiego del carbonio 14, la Sindone sarebbe un lino di età medievale e quindi potrebbe essere il sudario che ha avvolto un uomo appena crocefisso, ma alcuni secoli dopo l’avvento dell’era cristiana. Un bel rebus che la Chiesa ha recentemente affrontato dichiarando che la Sindone, conservata a Torino, è comunque da secoli un oggetto di culto e come tale venerato da milioni di cristiani, e quindi la sua eventuale inautenticità storica non ne intacca il valore spirituale. La situazione oggi è ferma a questo punto.
Ma se non è il sudario di Cristo, di chi è il volto raffigurato sul grande lino chiuso in una teca nel duomo di Torino? E’ appena uscito per i tipi di Newton Compton il romanzo La mappa da Vinci nel quale l’autrice Vittoria Haziel ipotizza che la Sindone sia stata realizzata con la tecnica della pirografia (scrittura con il fuoco) nientemeno che da Leonardo da Vinci, il quale vi avrebbe impresso il proprio autoritratto. Le prime notizie storiche sulla Sindone risalgono agli anni in cui visse Leonardo, quindi l’artista avrebbe avuto la possibilità di lavorare su una tela antica e ritrarre le sembianze di un uomo con addosso le ferite conseguenti alla crocifissione e dandogli a conclusione dell’opera il proprio volto. Un’ipotesi azzardata che, comunque, sta suscitando interesse e si aggiunge alla sterminata letteratura esistente sulla sindonologia, lo studio del Sacro Lino di Torino, sul quale da secoli si accapigliano studiosi laici e ferventi cattolici. Il libro è stato presentato in una serata vinciana a Palazzo Chigi di Formello dal giornalista e scrittore Ruggero Marino, autore di un’opera non meno intrigante: dopo lunghi studi ha scritto più di un libro su Cristoforo Colombo, demolendo molte credenze e sostenendo la validità dei suoi viaggi transatlantici alla fine del Cinquecento, diretti alla scoperta dell’America.
La mappa da Vinci, è un thriller in forma di romanzo storico ambientato ai giorni nostri a Torino. La vicenda ha il ritmo di un poliziesco. Prima, da una chiesa di Milano, sparisce misteriosamente un quadro, un dipinto che reinterpreta il Cenacolo di Leonardo da Vinci, poi da casa scompare il suo autore, un pittore da sempre affascinato dall’enigma della Santa Sindone. Da qui una serie di avvenimenti che seguono a un’indagine di polizia ambientata nella magica città della mole Antonelliana, finisce per dover rispondere a un quesito d’insuperabile difficoltà: è possibile che autore della Sindone sia Leonardo da Vinci? Che, di conseguenza, la grande reliquia venerata dalla Chiesa sia un capolavoro dell’arte? In una parola, un paradossale passaggio, attraverso la storia, dal sacro al profano, da sudario di Cristo a lino medievale? E se fosse davvero l’autoritratto di Leonardo?
Come George Simenon ha affidato centinaia di volte al suo taciturno Maigret casi non meno intricati, così Andrea Camilleri, trent’anni dopo, ha calato in situazioni imbarazzanti, soprattutto con le donne, il suo permaloso Montalbano. Un duplice accostamento che Vittoria Haziel merita appieno: il suo commissario Coppola non è da meno dei due appena citati e degli altri che oggi animano i gialli alla moda. Qui, in più ci sono comprimari del calibro di Leonardo da Vinci, e un “corpo di reato” eccezionale come la Sacra Sindone, calati in un mondo popolato di uomini di Chiesa e investigatori della Polizia di Stato, documentaristi con il gusto dell’occulto e satanisti tout court: un’ambientazione che avrebbe fatto la gioia di Umberto Eco. Per non dire di Dan Brown, che in materia da tempo scrive best sellers da milioni di copie che nessuno si azzarda a prendere per favolette.
La Mappa da Vinci è di diversa levatura. Quanto all’autrice, Vittoria Haziel è il nom de plume con il quale firma la sua vasta produzione letteraria, giornalistica e documentaristica. All’anagrafe fa Consolata Corti, figlia di un questore (di qui forse il suo manifesto amore per le indagini poliziesche), è stata moglie di Giorgio De Rienzo, morto sei anni fa, docente di letteratura italiana a Torino e per molti anni critico letterario del Corriere della Sera. A lui Vittoria cinque anni fa ha intitolato il premio letterario “Giorgio De Rienzo – Non è un addio”, destinato alle giovani promesse della scrittura. Un omaggio-ricordo non da poco. E, per una coincidenza che colpisce, nello stesso giorno dell’uscita del suo romanzo l’Haziel ha trovato in edicola abbinato al Corriere della sera il volume di Giorgio De Rienzo che fa parte della collana dedicata dal quotidiano milanese alla letteratura italiana. Ma qui Leonardo da Vinci non c’entra, a meno di non voler giocare sulle coincidenze della vita letteraria, che non sono meno stupefacenti di quelle della vita di tutti i giorni.