Trent’anni senza James Baldwin, senza la sua scrittura potente, senza il suo coraggio e la sua rabbia esistenziale. Trent’anni senza la sua prosa volta a tutelare i diritti delle minoranze e dei più deboli, a restituire dignità e speranza agli oppressi, a costituire un argine contro l’indecenza rappresentata da ogni forma di sfruttamento e, in particolare, dalla discriminazione su base razziale nei confronti dei neri. Trent’anni senza questo intellettuale cosmopolita, guerriero di ogni battaglia e sognatore indomito, sempre pronto a battersi al fianco degli ultimi e dei deboli. Trent’anni e ci interroghiamo su come sia cambiata nel frattempo l’America, dopo che al primo presidente nero della sua storia ha fatto seguito un personaggio appoggiato esplicitamente da gruppi neonazisti e per nulla disposto a condannare con la dovuta fermezza i rigurgiti di violenza che stanno squassando il paese.
Trent’anni dopo la scomparsa di Baldwin, ora che le lotte per i diritti civili hanno perso vigore e che le mobilitazioni si sono rarefatte, ora che tutto sembra scivolarci addosso e che le speranze degli oppressi si sono notevolmente affievolite, siamo chiamati a riflettere sulle sorti di un pianeta in cui le ingiustizie sono, se possibile, aumentate e le discriminazioni, andando al di là della facciata e di qualche pur positivo episodio di emancipazione, sono ancora più sottili e pervasive di un tempo.
Nulla fu semplice nella sua breve e tormentata esistenza: fu, infatti, un cittadino del mondo ma al tempo stesso un apolide, costretto a fare i conti con le ristrettezze economiche dell’infanzia e con le notevoli difficoltà incontrate per affermarsi, senza mai potersi davvero godere la fama che aveva meritatamente raggiunto a causa di un contesto sociale esplosivo che faceva comunque di lui un ribelle, una voce fuori dal coro e, dunque, emarginata, un personaggio scomodo e sempre tenuto alla larga dal conservatorismo e dalla ferocia suprematista che, purtroppo, in America vanno ben al di là degli angusti confini di certi noti gruppi.
Baldwin ci lasciò a soli sessantatre anni, provato da una vita fatta di fughe e di amarezze, di battaglie e di sconfitte, di affermazioni effimere e di pagine vergate con la tenace determinazione di chi sa di non avere altra arma per provare a combattere contro i pregiudizi e il senso di esclusione, solitudine e ghettizzazione che da sempre caratterizza i neri negli Stati Uniti.
Ci lasciò e oggi gli rendiamo il dovuto omaggio, ben coscienti del fatto che suoni alquanto ipocrita la serie di onori che finalmente sta ricevendo, dopo che per molti anni è stato considerato alla stregua di un bastian contrario, di un ribelle e non certo del genio che in effetti era e che solo ora quest’America sull’orlo di una crisi di nervi è costretta a rispolverare, se non altro per costituire, sul versante sinistro, un flebile argine alla barbarie trumpista e a ciò che essa comporta.
P.S. Dedico quest’articolo alla memoria di Alessandro Leogrande, stroncato nei giorni scorsi da un infarto a soli quarant’anni. Non sembri eccessivo se lo definisco il Baldwin italiano, in quanto l’impronta culturale era la stessa e l’attenzione alle tematiche sociali lo rendeva una splendida persona prim’ancora che uno scrittore che non dimenticheremo mai.