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Il suicidio di Slobodan Praljak e quegli interrogativi inquietanti che attendono risposta

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Ha bevuto il veleno, ma non era Socrate. Slobodan Praljak era capo di stato maggiore della HVO, l’esercito della autoproclamata Herceg Bosna nel conflitto degli anni ’90 in Bosnia Erzegovina. Quell’esercito ha commesso gravi crimini di guerra e contro l’umanità, ripercorsi dai giudici nella sentenza che lo ha condannato a 20 anni.
Nel suo ruolo di comandante, Praljak sapeva della pulizia etnica commessa a Prozor nel luglio del ’93, era informato dei crimini commessi contro la popolazione civile di Mostar, degli omicidi e della distruzione del patrimonio storico e artistico della città, compreso lo Stari Most, ha “facilitato” l’omicidio di cittadini bosniaco musulmani non combattenti e la devastazione di Stupni Do nell’ottobre del ’93, quando soldati delle unità speciali “Maturice” e “Apostoli” stuprarono donne del villaggio e uccisero 36 persone, compresi tre bambini. Per i giudici, l’imputato non fece nulla per impedire quei crimini. Oggi la pietas nei suoi confronti, morto suicida, non può oscurare la pietas nei confronti delle vittime.
La sua immediata glorificazione nel dibattito pubblico croato, dopo la sua morte, sta invece causando proprio questo corto circuito. Il cordoglio espresso dalle massime istituzioni dello Stato, dal Primo ministro Plenković alla presidentessa Grabar-Kitarović, non è rivolto alle vittime, ma all’eroe Praljak. Eppure la sentenza contro i sei capi politici e militari della Herceg Bosna ha dimostrato una cosa molto importante, e dolorosa, per Zagabria. Che la Croazia di Franjo Tudjman e Gojko Šušak era coinvolta nell’aggressione ad un altro paese, la Bosnia Erzegovina, e che quel conflitto aveva dunque una dimensione internazionale. Per i giudici, un’associazione criminale legava l’allora leadership croata a quella croato bosniaca, con l’obiettivo di “ripulire” etnicamente ampie zone dell’Erzegovina dai bosniaco musulmani, obiettivo peraltro realizzato.
Dopo questa sentenza ci si sarebbe attesi un’offerta di riparazioni, o perlomeno di scuse, nei confronti di Sarajevo, e il rinnovato impegno da parte della Procura di Stato di Zagabria ad arrestare altri criminali, come richiesto dal Procuratore dell’Aja che, nel suo commento, ha ricordato che “molti responsabili di quei crimini si trovano sotto la giurisdizione delle autorità croate”. Niente di tutto questo.
Il suicidio in diretta televisiva di Slobodan Praljak ha chiuso in maniera violenta l’era dell’ormai ex Tribunale Penale per la ex Jugoslavia, consegnandoci la fotografia di una regione attraversata da un clima politico identico a quello degli anni ’90, indifferente al ventennale lavoro della giustizia internazionale. In un attimo, quel gesto terribile ha rimesso al centro la retorica nazional patriottico militare, azzerando il resto. E lasciando aperti molti interrogativi, sullo stesso Tribunale. Perché Praljak si è ucciso? Chi lo ha aiutato nel suo proposito? Perché?
Slobodan Praljak si era consegnato ai giudici dell’Aja poco dopo aver saputo di essere stato messo sotto accusa, il 5 aprile del 2004. Dopo nove anni, era arrivata la sentenza di primo grado, venti anni di reclusione. Dopo altri quattro anni è arrivata la sentenza definitiva, quella di mercoledì scorso. Dunque, Praljak aveva già fatto oltre tredici anni di carcere. La prassi del TPI prevede la liberazione del condannato dopo aver scontato i due terzi della pena. Con la conferma della sentenza, Praljak era praticamente libero.


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