Una giornata con gli uomini e le donne dell’Avo nell’hospice del Nuovo Regina Margherita a Roma. “Non veniamo a trovare uno che muore, ma uno che è vivo. Qui c’è l’essenza dell’esistenza”. Ma è un volontariato difficile, lo stress emotivo e il burn-out sono sempre in agguato
L’hospice è luminoso e silenzioso. Roberto De Falco cerca di farci credere che è qui per fare una “cosa normale”: “Per me è come venire a trovare un amico che sta male: ti vengo a trovare, se hai bisogno di qualche cosa io cerco di farlo… Non mi sento un volontario”. Invece lo è, un volontario: fa parte dell’AVO (associazione volontariato ospedaliero) Roma ed è uno di quelli che accompagnano i malati verso il fine vita, nell’hospice del Nuovo Regina Margherita a Trastevere.La struttura ha dieci posti letto: per alcuni è l’ultimo soggiorno, per altri una tappa di un percorso che proseguirà a casa, per poi tornare qui, magari a distanza di tempo. A casa i pazienti sono seguiti dalla stessa equipe della cooperativa che gestisce l’hospice, qui i volontari dell’AVO dannoun valore aggiunto.
Incontriamo Roberto insieme a Gina Pitascio, responsabile del gruppo di volontari che fanno servizio nell’hospice,Rosalba Di Carlo e Alessia Biasco, che di anni ne ha appena 21 e ha iniziato questa esperienza appena possibile, cioè quando ha compiuto i 18 anni e ha potuto fare il corso di formazione obbligatorio prima di cominciare.
Non nascondiamo la sorpresa nel trovare una persona così giovane. “Ho deciso di venire qui, non a fatica ma neanche a cuor leggero. Vengo a trovare una persona, come se la conoscessi da un sacco di tempo, per cercare di farla stare un po’ meglio – spiega. La cosa più bella è ascoltare: spesso i pazienti si aprono, come se davvero ti conoscessero da sempre, ti parlano della loro vita, dei loro ricordi, ti rendono partecipe… C’è anche chi non vuole parlarti, magari nemmeno vederti, ma sappiamo accettarlo». Certo, poi il momento del dolore arriva, quando qualcuno cui ti eri affezionato “va via”. “Mi sono trovata anche a piangere, tanto che Gina si è preoccupata. È vero che ci fanno fare i corsi, che sono molto utili, ma stare sul campo è un’altra cosa. Ho capito che dovevo avere un altro atteggiamento, mantenendo un certo distacco…”.
Eppure, proprio le emozioni possono essere una motivazione per questo tipo di volontariato. Ad esempio per Rosalba: “Sono arrivata qui due anni dopo aver fatto volontariato, sempre con AVO, in altri ospedali e in altri reparti. Volevo qualche cosa di più coinvolgente dal punto di vista emotivo, ed ero emozionatissima. Questo luogo è una testimonianza della complessità della vita. Ho avuto nella mia vita tante esperienze di malattia grave e di morte, dove ho sperimentato una grande estraneità e la difficoltà di condividere le emozioni. Qui ci sono emozioni di tutti i tipi. Per fortuna, però, so come fronteggiarle”.
Per lei, il momento più forte è “quando mi trovo di fronte una persona che non conosco, ma capisco che è consapevole della sua situazione e devo decidere lì per lì sia il mio atteggiamento emotivo, sia cosa fare per non essere banale. È successo poche volte, perché in genere c’è invece una situazione di calma, di lontananza dalla complessità della vita, di godimento del quotidiano. Quando però succede, per me è molto impegnativo. Ma in fondo è quello che volevo: finalmente le emozioni esistono!”.
Non ci sono ricette, di fronte a una persona che vive l’ultima fase della propria vita, e per evitare la banalità, secondo Rosalba, c’è solo un modo: «Cercare di dimostrare la mia vicinanza, soprattutto con il contatto fisico. E poi parlare del passato: quello che hai fatto, i figli, i viaggi…”. Per Alessia i momenti più duri sono quelli in cui si riconoscono i sintomi del peggioramento. Per Roberto «sono quando apri una porta e non c’è più chi ti aspettavi di trovare».
Sono solo volontari, non medici né infermieri, ma ormai riconoscono i segnali che fanno capire che la persona sta andando via. Gli occhi che si ingrandiscono, il cibo rifiutato… “Quando percepisco che qualcuno è agli ultimi attimi di vita, provo una sensazione sicuramente indescrivibile, ma anche inevitabile – racconta Roberto. Anche fuori di qui mi è capitato di vivere gli ultimi mesi, gli ultimi giorni con persone che conoscevo, magari da poco. In quei momenti non ci sono molti schemi mentali. È come avvicinarsi all’essenza dell’esistenza, la mia e quella degli altri. È un rapporto umano nel pieno senso del termine. Lui sta così, tu stai così, e siete vicini”.
Gina è nell’AVO da 25 anni e ha fatto diverse esperienze. «Per un certo periodo ho anche un po’ abbandonato il lavoro sul campo, per occuparmi degli aspetti organizzativi e burocratici – spiega. Avevo bisogno, tornando al volontariato attivo, di un’esperienza forte, così ho scelto di venire qui. Pensavo fosse un luogo di morte, e invece ho capito subito che è un luogo di vita. Inoltre il servizio di questo reparto è importantissimo anche per familiari e badanti. I familiari qui vivono il rapporto in modo molto diverso da quello che vivono in ospedale (possono stare nella stanza, non ci sono orari stringenti, eccetera), ma comunque sono in una condizione di solitudine. Attraverso il dialogo con noi, riescono ad accettare meglio la situazione, la prospettiva della morte del loro congiunto».
“Il rapporto con i parenti è importante anche perché c’è un luogo comune,secondo il quale il rapporto con la morte è più facile, se il malato resta in famiglia – aggiunge Rosalba. Non è vero, perché qui sono meglio accuditi, ma i parenti – soprattutto i figli – hanno un senso colpa per aver portato il proprio congiunto dell’hospice. Noi li aiutiamo a superarlo”.
Nell’hospice capitano anche persone con cui, fuori di qui, probabilmente non si riuscirebbe ad avere un rapporto. I volontari raccontano un paio di casi: uno con simpatie estremiste, che rivelava nei suoi discorsi: «Lo ascoltavamo, ma a volte lo contestavamo anche». Un testimone di Geova, che fino all’ultimo, chiuso nella rigidità della sua fede, rifiutava anche il figlio. «Però qui idee politiche e fedi religiose passano in secondo piano: in quei momenti sei davanti a una persona che ha bisogno di te», puntualizza Roberto. Non è facile, ma è giusto.
«La vita si manifesta in molti modi – aggiunge Gina. C’era una signora che un giorno mi ha chiesto di aiutarla a lavarsi i capelli. Ho cercare di fare del mio meglio e le ho proposto una nostra volontaria, che è parrucchiera. Risposta: “ma se poi mi fa il caschetto, che io odio…”. Aveva ancora la forza di insistere per quello che voleva: è la vita, fino all’ultimo».
Il nodo vero, per questo tipo di volontariato è il coinvolgimento nei rapporti con i pazienti: se è troppo poco, non scatta la relazione, se è troppo, c’è il rischio di andare in crisi. “Ognuno di noi sa, – spiega Gina – che il rischio del burn out è sempre presente, se in un luogo come questo uno si lega troppo alla persona…”.
Per questo è un tipo di volontariato che non tutti possono fare.”Non perché non siano in grado, ma perché sottopone ad uno stress emotivo forte. Quindi, se non sei una persona equilibrata e risolta con te stessa, è difficile sostenere un impegno di questo tipo.Di fronte alla sofferenza e alla morte la maggior parte delle persone scappa. Spesso mi sono sentita dire nella vita di fuori: io non chiamo Giulia che sta male, per non disturbare… In realtà il problema è che, di fronte alla malattia, alla sofferenza, alla morte, ognuno pensa alla propria. Ecco perché bisogna essere corazzati.E bisogna avere una formazione specifica”.
Anche per Alessia «bisogna essere capaci di tenere tutto qui dentro, nell’hospice, di non portarsi fuori emozioni, pensieri, sofferenze». Anche se, secondo Roberto, «l’hospice non è qualcosa di estraneo, è la vita. Non vengo a trovare uno che muore, ma uno che è vivo. Che è parte del mio mondo». Per questo serve la formazione e anche l’accompagnamento nella fase iniziale: i volontari infatti fanno un tirocinio, all’inizio.
Il tema del volontariato nel fine vita è molto delicato e molto attuale. L’AVO e il CESV (Centro di Servizio per il Volontariato del Lazio) da tempo lavorano su questo tema con un progetto che è sfociato in un corso di formazione regionale, i cui atti sono stati pubblicati nel volume “Percorsi di fine vita. Umanizzare il morire nelle strutture sanitarie”, disponibile in versione .pdf a questo link. (Paola Springhetti)