Scelse un contesto quasi letterario, drammaticamente freddo e nebbioso e purtroppo in linea con le atmosfere nelle quali erano nate alcune delle sue geniali intuizioni, per andarsene all’età di settantatre anni. Era il 19 dicembre del ’92, venticinque anni fa, e di Gianni Brera ci rimangono le definizioni fulminanti, gli articoli e i ritratti di fuoriclasse dal sapore romanzesco, le battute ineguagliabili, le sferzate gustose anche quando risultavano particolarmente feroci, anzi soprattutto in qui momenti, le celebri idiosincrasie e infine le descrizioni di partite interpretate in maniera del tutto arbitraria, talmente arbitraria che alla fine la realtà effettiva e la realtà di Brera si sovrapponevano, finché la seconda non prendeva naturalmente il sopravvento sulla prima. E se ciò avveniva era perché la sua competenza era tale che rendeva lo svolgimento del gioco, le azioni e la poesia del campo quasi secondari, appuntando la propria attenzione su qualche dettaglio, sulle caratteristiche tecniche di un singolo protagonista o, talvolta, persino sull’aspetto emozionale del calcio, trasformando i suoi resoconti in pagine di letteratura, in attimi di puro godimento, in testi che conservano intatta la propria attualità anche a distanza di tanti anni.
Brera, infatti, aveva capito, prima e meglio di altri, le potenzialità del fenomeno calcistico, il suo essere un termometro attendibile dello stato di salute del Paese, la sua capacità di penetrazione in vasti strati della società, il suo essere un fattore unificante, una grande epopea popolare, un romanzo collettivo che riduceva le distanze acuite da altri elementi: insomma, una passione genuina, autentica, sincera, in grado di regalare emozioni e di far sentire pienamente partecipi anche i ceti più deboli.
Riteneva il calcio un’occasione di riscatto per gli ultimi, ne amava il senso di giustizia, la dignità, la bellezza: ne aveva, dunque, una concezione simile a quella di Pasolini, considerandolo alla stregua di un’epica moderna, l’ultimo poema rimastoci, con la differenza che i suoi tanti aedi non sono dei letterati ma delle persone comuni che vivono ogni giorno le fatiche, le ansie e le disperazioni di chi è costretto costantemente a lottare per conquistarsi un brandello di effettiva libertà.
Se ne andò dopo aver narrato per mezzo secolo le imprese dei più grandi campioni di tutti i tempi, amandoli e facendosi amare persino nel dissenso e nella ruvidezza dello scontro.
GioannfuCarlo da San Zenone Po, l’immaginifico dalle mille battaglie: da quello schianto nella notte il silenzio. Almeno qui, perché lassù con Nereo Rocco, davanti a un fiasco di vino rosso, siamo certi che non smetteranno mai di inventarsi un mondo, una vita e tanti sogni con i quali rinverdire la meraviglia di un tempo ormai perduto.