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E ora Pantalone non vuole più pagare

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Il Veneto si prepara a raccogliere i frutti del successo ottenuto nel referendum consultivo per una maggiore autonomia, dove il quorum richiesto è stato superato con disinvoltura e i “Sì” sono stati il 98%.

di Nicola Chiarini (giornalista)

Per il Veneto il dado è tratto e, dopo il semaforo verde acceso dal referendum consultivo con quorum del 22 ottobre scorso, si stanno aprendo le trattative per l’autonomia tra la Regione, guidata dal leghista Luca Zaia, e il Governo, marcando un percorso distinto rispetto a Emilia Romagna e Lombardia, pure in pista per ottenere maggiori competenze. Come facilmente prevedibile alla vigilia, il risultato delle urne è stato larghissimo per il “Sì”, che ha raggiunto il 98,1% dei consensi espressi. A fronte di una partecipazione complessiva del 57,2%, pari a 2.328.949 elettori su 4.068.560 aventi diritto, le schede favorevoli sono state 2.273.985 contro 43.938 contrarie, per un totale di 2.317.923 espressioni valide.

Il dato politico cruciale, pero, non era tanto l’atteso responso favorevole, ma il raggiungimento del quorum, obiettivo centrato in sei province su sette, con la sola Rovigo che non supera l’asticella del 50% più uno dei votanti. Il record di partecipazione si registra in provincia di Vicenza con il 62,7% (450.933 partecipanti su 719.454 aventi diritto) che precede quelle di Padova con il 59,7% (450.369 su 754.301), Treviso con il 58,1% (443.751 su 764.133), Verona con il 55,5% (399.863 su 719.905), Venezia con il 53,7% (375.296 su 698.459), Belluno con il 51,4% (107.710 su 209.678 con il traino, peraltro, di una consultazione sull’autonomia provinciale affiancata a quella regionale è passata col 98,67% dei Si con un’affluenza del 52,2%) e, appunto, Rovigo che con il 49,9% (101.027 su 202.630) è la sola a non garantire il raggiungimento del quorum. Un dato quest’ultimo che balza all’occhio, a maggior ragione perché nelle più recenti consultazioni referendarie il Polesine non aveva avuto scollamenti rilevanti rispetto al dato delle altre province del Veneto. Al referendum sulle trivelle del 17 aprile 2016 la provincia di Rovigo, affacciata sul mare Adriatico con il Delta del Po, aveva registrato una partecipazione leggermente superiore, attestata al 39,3%, contro il 37,9% di media regionale.

Un interesse inferiore al resto del Veneto, invece, era emerso sulla chiamata alle urne del 4 dicembre 2016 che segno la sonora bocciatura della proposta della riforma costituzionale, fortemente voluta dall’allora presidente del consiglio Matteo Renzi, a propria volta travolto dalla valanga di no. In quell’occasione l’affluenza in Polesine si attesto al 74,1%, contro il 76,7% registrato nel resto del Veneto. Due gli elementi che, più di altri, paiono avere inciso su questo risultato in controtendenza. Il primo di probabile natura “geografico-culturale”: la provincia di Rovigo è storicamente quella che si sente meno agganciata a Venezia e vive con una proiezione forte verso l’Emilia Romagna, quantomeno nelle zone affacciate sul Po, al confine con Ferrara. Un legame stretto quello con la città estense che si riflette non solo nei dialetti ma, addirittura, nella condivisione di spazi e servizi, al punto che il comune polesano di Occhiobello è servito dai bus urbani del capoluogo emiliano.

Cosi succede che, indipendentemente dall’orientamento politico delle amministrazioni municipali, la diserzione alle urne in queste aree è fortissima e determinante per il mancato raggiungimento in Polesine dell’obiettivo di partecipazione, con risultati addirittura sotto il 40% a Ficarolo (30,3%), Occhiobello (35,2%), Gaiba (39,9%). Mancato il quorum anche a Stienta (41,2%), città d’origine dell’assessore regionale Cristiano Corazzari. Risultato fallito anche a Rovigo (47,6%), il capoluogo guidato da Massimo Bergamin, probabilmente il dirigente veneto del Carroccio più vicino al nuovo corso sovranista di Matteo Salvini è divenuto presenza frequente nei talk show delle televisioni nazionali.

I dati tendono a riallinearsi a quelli del resto del Veneto nei centri sulle sponde dell’Adige, ai confini con le province di Padova e Venezia, tra cui spiccano Lusia (62,1%) e Rosolina (61,8%). Il secondo elemento di controtendenza pare di natura più politica e sembrerebbe legato alle scelte della maggioranza dei dirigenti territoriali del Partito democratico e del Movimento 5 stelle schierati per l’astensione, a differenza delle strutture regionali schierate per il Si. Questa posizione prevalente in Pd e M5s polesani è motivata dalla contestazione all’uso “plebiscitario” dello strumento referendario, ritenuta nella formulazione più una manovra a supporto delle fortune politiche di Zaia e del centrodestra, più che delle ragioni di un’autonomia a cui praticamente tutti dichiarano di tendere, tanto che i pro astensione ricordano come l’apertura di un tavolo fosse tecnicamente possibile dal 2001, anno della riforma del titolo V della Costituzione. E, dal 2001 a oggi, il governo regionale è stato senza interruzioni appannaggio della coalizione di centrodestra, in cui la Lega Nord ha da sempre un ruolo di primo piano.

In ogni modo nel consiglio del Veneto, a prescindere dalle voci dissonanti, sussiste una solida maggioranza, tanto che il progetto di legge 43 sulla cui base Zaia apre la trattativa con Roma su tutte e 23 le materie consentite ha potuto contare su 40 voti su 51 con il Pd e Patrizia Bartelle (M5s, eletta in Polesine) che non hanno partecipato al voto. Zaia ha comunque tentato un richiamo all’unità: «In questa partita dobbiamo esserci tutti e fare squadra», ha dichiarato il presidente della Regione, chiedendo di aprire il confronto con Roma su 23 competenze, mettendo in testa il tema fiscale e tributario, con la parola d’ordine «trattenere in Veneto i nove decimi del gettito». Ed è proprio su questo punto che i democratici hanno scelto di uscire dall’aula e che, attraverso il proprio capogruppo Stefano Fracasso, hanno sottolineato di non essere persuasi della praticabilità di un’ipotesi a cosi ampio spettro, soprattutto in vista della discussione parlamentare, in cui l’approvazione eventuale dovrà essere sancita dalla maggioranza assoluta di Camera e Senato.

Nelle trattative la Regione sarà affiancata da un pool di tecnici formato dai costituzionalisti Luca Antonini e Mario Bertolissi, entrambi docenti ordinari all’università di Padova, e dagli esperti di materia finanziaria e tributaria Carlo Buratti e Dario Stevanato, rispettivamente in servizio negli atenei di Padova e Trieste. Il gruppo di lavoro è completato da Mario Caramel, Maurizio Gasparin, Ezio Zanon che sono dirigenti della Regione Veneto. Certo, è difficile stabilire quali saranno gli esiti del tavolo nell’immediato, a maggior ragione per l’imminenza del voto politico di primavera, che pone al governo Gentiloni una scadenza forse troppo ravvicinata per auspicare una compiuta chiusura della partita.

Sul tavolo, stando al perimetro definito dall’articolo 117 della Costituzione, rapporti internazionali e con l’Ue; commercio con l’estero; lavoro; istruzione, esclusa la formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e sostegno all’innovazione; salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; trasporti; ordinamento della comunicazione; energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali; sistema bancario territoriale.

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