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Afghanistan e Messico gli ultimi teatri di morte per i giornalisti nel 2017: 68 i colleghi uccisi mentre svolgevano il proprio lavoro

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Anche nel 2017 quello dei giornalisti uccisi durante lo svolgimento del proprio lavoro è un tragico bollettino di guerra. Lo ha confermato l’ultimo rapporto diffuso la scorsa settimana da Reporters sans frontières e ancor prima il Committee to protect journalist che ha tracciato la mappa delle repressioni della libertà di stampa nel mondo.
A perdere la vita quest’anno sono stati 68 operatori dell’informazione, dato aggiornato con i due redattori dell’agenzia ‘Sadai Afghan’ rimasti uccisi nell’attentato kamikaze di ieri a Kabul al Tabian Media Center.
Le vittime sono quasi tutte civili, tra cui donne e bambini: almeno 42 morti e 30 feriti.
Il Tabian Media Center è un centro culturale gestito da un religioso sciita frequentato sia da giornalisti che da alunni di istituti scolastici di ogni grado.
Come ha confermato il direttore dell’agenzia, Sayed Hasan Hussaini, al momento dell’esplosione era in corso una riunione di studenti.
Due giorni fa, invece, l’ultimo omicidio di un collega, il messicano Gumaro Perez Aguilando, cofondatore della testata digitale La Voz del Sur.
Con la sua uccisione sale a 12 il numero dei giornalisti morti in Messico nel 2017 per le loro inchieste, raggiungendo così la Siria nella classifica stilata da Rsf.
Un gruppo di uomini armati ha preso d’assalto una scuola elementare di Acayucan, a Veracruz, dove Perez, 35 anni, assisteva alla recita natalizia del figlio: lo hanno crivellato di colpi davanti a tutti.
Il top della classifica dei paesi più pericolosi per i giornalisti vede dunque primeggiare Siria e Messico.
Se nel primo è la guerra a uccidere, nel secondo sono i narcotrafficanti.
Gumaro, come molti altri colleghi messicani che scrivono delle attività illegali dei cartelli criminali e della classe politica corrotta, era una vittima predestinata.
Tutti coloro che sfidano il malaffare lo fanno a rischio della propria vita mentre chi li uccide gode quasi sempre dell’impunità, 10 dei 12 omicidi nel Paese durante il 2017 sono ancora senza un responsabile identificato dalla giustizia.
Ma a destare allarme sono anche le Filippine. Cinque gli operatori dei media uccisi quest’anno. La nazione asiatica appare più insicura da quando il presidente Rodrigo Duterte ha pronunciato un discorso in cui ha affermato che “essere un cronista non ti risparmia dall’essere ucciso, se sei un figlio di…”.
Sarà un caso, ma l’anno prima nessun giornalista aveva perso la vita.
Se nel complesso, il numero dei morti a livello globale risulta il più basso degli ultimi 14 anni, aumentano i paesi dove è più rischioso fare informazione.
Il calo dei decessi viene spiegato da RSF con una preparazione migliore dei reporter ad affrontare scenari di guerra. E in tanti fuggono. Sta infatti aumentando la tendenza di chi lascia i luoghi di crisi in cui si reca per raccontare ciò che lì accade quando si intensifica il conflitto.
Secondo Rsf da Siria, Iraq, Yemen e Libia si è verificata una vera e propria emorragia di giornalisti.
Tanti anche i colleghi finiti in carcere nel 2017, 326 in totale.
La Cina detiene il primato con 52, seguono poi la Turchia con 43 e Siria, Iran e Vietnam con rispettivamente 24, 23 e 19 operatori dell’informazione detenuti. Infine 2 colleghi restano “irreperibili” e 54 sono ancora tenuti in ostaggio, tra cui una donna.
Nessun italiano ha perso la vita in questo anno o ha subito violenza, anche se non sono mancati momenti di paura quando in Turchia è stato arrestato Francesco Del Grande, regista e giornalista freelance che era nel Paese per intervistare i profughi siriani, soggetto del suo nuovo documentario.
Per fortuna dopo alcune settimane è stato rilasciato ed è potuto tornare a casa incolume nonostante l’ostilità crescente del regime turco.
Non sono stati altrettanto fortunati i giornalisti italiani che negli anni precedenti hanno perso la vita nei luoghi in cui si erano recati per raccontare conflitti e crisi umanitarie.
Come il fotoreporter Andrea Rocchelli che vogliamo ricordare a chiusura di questo pezzo a nome di tutti noi di Articolo 21 ribadendo che mai smetteremo di chiedere verità per la sua uccisione nel 2014 in Ucraina, insieme a papà Rino e mamma Elisa la cui dignità, la determinazione e il coraggio nella ricerca di giustizia per il proprio figlio non sono venute mai meno.


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