E’ stata una grande esperienza poter lavorare all’inchiesta nata dai #ParadisePapers, i documenti riservati fatti avere alla Süddeutsche Zeitung e da questa condivisi con l’Icij, il Consorzio internazionale di giornalisti investigativi. Una grande sfida professionale ma soprattutto una esperienza unica dal punto di vista umano.
Professionalmente, accedere a un database immenso (13,4 milioni di file, pari a 1,4 terabyte) e di lettura e interpretazione complessa, è un’opportunità unica per un giornalista che abbia l’aspirazione di non fermarsi ai lanci di agenzia o alle frettolose verifiche sul web, ma voglia andare fino in fondo rispetto a un mondo, quello che si muove lungo i canali della finanza globale, che ogni giorno di più determina le scelte di stati e istituzioni internazionali e ipoteca il futuro di tutti. Partire da quei materiali significa però anche affinare le modalità di verifica anche sulle fonti aperte, visure, appalti, fascicoli giudiziari anche storici, che alla luce dei documenti aiutano a riscrivere anche alcune pagine del nostro recente passato e interpretare correttamente il presente.
Ma l’avventura più inattesa è stata quella umana: essere accolti da partner nel Consorzio significa un rovesciamento di approccio al mestiere del giornalista ma anche al nostro ruolo di cittadini. Significa confrontarsi con una platea vastissima di colleghi sparsi negli angoli del mondo che condividono con te scoperte, verifiche nel database e sul campo, si propongono di raccogliere per tutti interviste nei posti più sperduti dove prevedono di andare e poi condividere i materiali, script, audio, video, frutto del loro lavoro sul campo, con uno spirito di partecipazione praticamente impossibile da trovare persino all’interno di una singola redazione, senza parlare di un’intera testata, scritta o tv che sia. C’è persino una versione di canale social tra quanti (quasi 400 giornalisti) hanno accesso al database, in cui gli scambi, più che quotidiani, si svolgono in uno spirito che andrebbe esportato sui social aperti, per recuperare un approccio sano all’“altro”, che già solo nella quotidianità del lavoro giornalistico è considerato un avversario, se non un nemico, spesso anche se ci siede accanto. In un lavoro che ha anche svelato, e reso pubblici, i segreti di alcuni tra i finanziatori dello stesso Icij, come Soros con la sua Open society Foundations. Una grande prova d’indipendenza editoriale a quanti fanno finta di non vedere magagne ben più gravi dei propri editori.
Un cantiere anche di contaminazione tra generi, dove la parte del leone la fa il web sotto le diverse coniugazioni, dal più classico webdoc che accosta video, audio, scrittura, foto, al data journalism, ai materiali diffusi sui social e a prime prove di “gamification”, un nuovo veicolo di contenuti per agganciare un pubblico giovane sempre più distratto.
E, come estrema azione partecipativa, dopo la pubblicazione delle inchieste calendarizzate dai partner e dallo stesso Consorzio, viene reso accessibile sul sito l’elenco di nomi, aziende, stati, istituzioni presenti negli archivi da cui è partita l’intera indagine. Con un invito: i file saranno a disposizione di tutti i colleghi che vorranno continuare a fare inchieste.
Report è tra le pochissime realtà che in Italia si dedicano al giornalismo investigativo, grazie all’altissimo livello di autori e redazione e all’appoggio di Rai 3. E’ stato prima contattato, un anno fa, e, solo dopo una lunga fase di riflessione da parte dei colleghi di Washington, accolto, insieme a realtà come il New York Times, a partecipare da partner alla nuova inchiesta. Non era scontato: il livello di preparazione, oltre che dei colleghi di ICIJ, dei giornalisti di testate come Guardian, Le Monde, del programma d’inchiesta Panorama di Bbc, della stessa Süddeutsche Zeitung, o, per l’Italia, de l’Espresso, per citarne solo alcuni, è da solo un filtro all’ingresso di nuove sigle editoriali. Una sfida che si muove anche sul fronte delle risorse che i rispettivi editori mettono a disposizione di quelle redazioni di qualità che hanno carta bianca su tempi, costi, contenuti e nomi da indagare, con il solo limite del rispetto della verità, fatte tutte le dovute verifiche. Mentre da noi i freelance incassano poche decine di euro a pezzo e devono fare i conti con le devastanti querele temerarie.
La Rai deve essere orgogliosa della squadra di Report che, senza essere testata e coinvolgendo colleghi non contrattualizzati da giornalisti o soprattutto addirittura precari, ha dimostrato di lavorare alla pari con questa platea di eccellenze. Testate e reti dell’Azienda hanno colto l’importanza di questo risultato e hanno rilanciato ripetutamente le inchieste prodotte da Report sotto il marchio dei #ParadisePapers.
Ora, viale Mazzini può cogliere l’occasione per portare a casa due risultati: coinvolgere tutta l’informazione del Servizio pubblico in un’azione di ripensamento di metodo, tempi, approccio alle notizie e alla condivisione con i colleghi al di là degli steccati di reti e testate; ma, soprattutto, costruire, proprio intorno a Report, quel nucleo di giornalismo investigativo di cui si parla tanto ma su cui poco si è ancora fatto, e che era il sogno di uno dei maestri a cui Report, ieri come oggi, si richiama: Roberto Morrione.
Potrebbe partire proprio dalla squadra di Sigfrido Ranucci, che di Morrione è stato allievo, e che nel suo spirito ha voluto dedicare questa inchiesta a Daphne Caruana Galizia, la reporter uccisa a Malta con un’autobomba, citando una bella lettera del figlio Matthew, membro Icij, pubblicata da l’Espresso: “In fin dei conti siamo giornalisti per convinzione, abbiamo la schiena diritta, e perché ipocrisia, crimini, cinismo, ingiustizia, compromessi morali e corruzione scatenano una tale rabbia che non possiamo esprimerla che facendo questo lavoro.”