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Pace e migrazioni. Le parole del Papa Francesco ci sorprendono ancora

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Pace e migrazioni. Sono soltanto poche righe, scritte in un linguaggio semplice, eppure ancora una volta le parole di Papa Francesco ci sorprendono e ci disorientano. Vedere i flussi migratori come elemento e alimento della pace, e non della paura o del pericolo, è un rovesciamento del punto di vista della visione ormai dominante nelle nostre società. Spostare l’attenzione dall’aspetto esteriore del fenomeno – milioni di persone in marcia evocano ataviche paure di invasione e sconvolgimento della propria realtà – a quello interiore, alle motivazioni profonde e inderogabili di questo spostamento, al bisogno proprio di ogni individuo di vivere in serenità e sicurezza la propria esistenza terrena, è un esercizio apparentemente facile ma di un estremo coraggio.

Pensare al migrante come a una persona è l’esercizio opposto rispetto a trasformare le persone in numeri. Ci costringe a fare i conti con ciò che ci rende simili all’altro: il nostro desiderio di pace, se siamo sinceri, vale quanto il suo. Anzi, è lo stesso. Guardare alla persona provoca empatia, guardare alle masse induce terrore. L’immagine di un solo bambino, il piccolo Aylan Kurdi riverso sulla spiaggia di Bodrum in Turchia, nel 2015, scosse le coscienze dell’Europa più del milione di profughi siriani in marcia attraverso i Balcani. L’approccio di Francesco mi fa pensare a una leva, uno strumento piccolo ma di grande potenza, che riesce a spostare l’enorme macigno dell’insicurezza e della paura. Al tempo stesso, c’è una dose di realismo che elimina alla radice la tentazione di bollare questo approccio come idealistico o, per usare un orrendo neologismo, “buonista”. Il reiterato richiamo a quel passaggio dell’enciclica giovannea “Pacem in Terris” sulle responsabilità che i governanti hanno verso le proprie comunità nel momento in cui accolgono gli stranieri non è il banale “aiutiamoli a casa loro”, ma un monito preciso e ineludibile a fare accoglienza e inclusione sociale sul serio, come purtroppo raramente possiamo dire del nostro paese.

Saper governare i flussi migratori e i processi di integrazione è un doppio dovere, verso chi arriva e verso chi ospita, ed è il presupposto per quella pace sociale a cui fa riferimento Francesco. L’alternativa è quella del costruttore stolto della parabola: con la differenza che nel nostro frangente il danno non sarà una torre mal riuscita ma una società disgregata e conflittuale. Perché così tanti rifugiati e migranti? La risposta a questa domanda è nella storia, non nella cronaca. Fingere che le migrazioni siano una crisi passeggera o di facile gestione sarebbe un atteggiamento ipocrita: l’onestà intellettuale propria di Papa Francesco sta nel riconoscere il carattere strutturale di questo evento storico, senza sminuirne o dissimularne la portata. Il mondo intero è in movimento, e noi italiani ed europei nonostante le percezioni catastrofiste restiamo ancora ai margini di questo fenomeno. Dei quasi 6 milioni di civili fuggiti dalla Siria in guerra, solamente il 15% sono arrivati in Europa, e addirittura lo 0,2% in Italia. Paesi come il Libano o la Giordania sopportano un peso inimmaginabile per noi, con una quota di rifugiati siriani che arrivano a circa un quarto della popolazione residente!* *[Libano: 1 milione di rifugiati su una popolazione di 4,2 milioni complessivi] Eppure se chiediamo all’uomo della strada quali siano i problemi che lo affliggono, troveremo regolarmente la parola “invasione” in cima alla lista delle preoccupazioni. Questo è il velenoso prodotto di quelli che il Papa definisce apertamente fomentatori di paura e seminatori di violenza. Ancora una volta, questo sconcertante abbaglio dipende dalla prospettiva in cui ci poniamo.

Possiamo scegliere se trattare gli “immigrati” come una categoria o un problema di ordine pubblico, oppure guardare alle ragioni pressanti che hanno spinto ciascuno di loro ad abbandonare la propria terra. Come recita la splendida poesia di una giovane poetessa di origine somala, Warsan Shire “nessuno lascia casa sua a meno che non sia proprio lei a scacciarlo”. Con sguardo contemplativo Nella terza parte del suo discorso Papa Francesco compie lo sforzo più ardito e ammirevole, allorché propone alla politica di mutuare le istanze più nobili e genuine della visione giudaico-cristiana in tema di fratellanza e solidarietà. Noi viviamo in una società secolarizzata, nella quale è d’obbligo tracciare una linea di separazione tra i valori e i riferimenti religiosi e quelli civili. Un appello ai decisori politici del Terzo Millennio fondato sui testi di Isaia e dell’Apocalisse potrebbe sembrare a molti insolito, se non persino inopportuno. Eppure, chi potrebbe negare la continuità e la contiguità fra il dovere biblico dell’accoglienza e della protezione dello straniero (frequente già nell’Antico Testamento) e i valori enunciati nelle moderne Convenzioni internazionali sui diritti umani, inclusa quella di cui noi dell’UNICEF siamo portatori per eccellenza – la Convenzione sui diritti dell’infanzia? Saremmo forse più laici se rifiutassimo di riconoscere questa coincidenza di valori etici e filosofici? Il vero nodo che il messaggio pontificio ci pone dinanzi è un altro: quanto contano davvero i valori della solidarietà nelle visioni politiche che si confrontano oggi?

Quanto si salva del nostro patrimonio etico, civile e culturale quando le proposte e le decisioni con cui affrontiamo il fenomeno migratorio sono finalizzate al consenso di breve, brevissimo termine: quello della prossima scadenza elettorale o del prossimo voto di fiducia? Come sentivo dire qualche giorno fa in un’intervista televisiva* da mons. Galantino, la preoccupante carenza di idealità nella politica si traduce in un analfabetismo sociale che appiattisce tutto al livello dello slogan e della retorica, rendendo faticoso e difficile qualsiasi tentativo di progettare il “bene comune”. E questa distorsione si manifesta soprattutto in relazione al fenomeno dei migranti e dei rifugiati. Nel nostro lavoro quotidiano in difesa dei minorenni stranieri non accompagnati, incontriamo ostilità e durezze fino a ieri inimmaginabili. Ormai il dato umano – il bambino o l’adolescente solo e vulnerabile – passa in secondo piano rispetto allo storytelling roboante sulla minaccia che questo ragazzino potrà rappresentare domani, se non già oggi: terrorista, stupratore, nel migliore dei casi peso morto da mantenere o concorrente sul mercato del lavoro. Abbiamo davvero bisogno di ritrovare uno sguardo più alto, se vogliamo costruire qualcosa che valga la pena di essere trasmesso alla generazione successiva.


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