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Mladic, Srebrenica, Carla Del Ponte, lontani ricordi di un Festival del cinema a Locarno

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Ratko Mladic, quello che tutti definiscono “il boia” viene finalmente condannato all’ergastolo, per crimini indiscutibili e incontestabili: centinaia i testimoni, migliaia le prove raccolte: a Srebrenica ha fatto uccidere e sterminare “consapevolmente”; a Sarajevo ha ordinato “di ripulire e distruggere la città”. Mladic ora ha 74 anni, da 25 anni si attendeva questo primo verdetto; 15 anni li ha potuti trascorrere in una impunita latitanza, quattro anni è durato il processo, di primo grado. Ora il suo nome lo possiamo associare a quello dei grandi criminali dei nostri tempi: una macabra classifica, con Hitler e Stalin in testa; e a seguire, Mao, Pol Pot, Pinochet, Bokassa, e chissà di quanti altri se ne smarrisce memoria e ricordo.

Il ricordo: va a una lontana edizione del Festival internazionale del cinema di Locarno, quella dell’ormai lontano 2004; a fianco della rassegna di film «raccolti» con paziente meticolosità nei quattro angoli del mondo, a testimonianza di una cinematografia capace di sfuggire alle logiche del puro consumismo fine a se stesso, una quantità di «incontri» e dibattiti fortissimamente voluti dall’allora direttrice Irene Bignardi. «Incontri» su questioni dure, come gli stupri e le mutilazioni genitali femminili, gli orrori che si consumano in Africa, la repressione cinese dei tibetani, la pena di morte. A uno di questi dibattiti prende parte Carla Del Ponte (nella foto): procuratore elvetica (lavora fianco a fianco con Giovanni Falcone per scoprire e individuare le mille vie del denaro mafioso, la mattina del 21 giugno 1989 doveva esserci anche lei con il collega Claudio Lehmann, nella villa dell’Addaura, dove alle 7.30 gli agenti di polizia trovano 58 cartucce di esplosivo all’interno di un borsone; i tre devono discutere sul filone dell’inchiesta «Pizza Connection» che riguarda il riciclaggio del denaro); poi Del Ponte diventa procuratore del Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia.

In quel lontano dibattito Del Ponte dice una cosa che pesa, e tuttavia sembra scivolare via, suscita poca o nessuna eco: avevano raccolto notizie ed elementi sui massacri come quelli di Srebrenica, su chi se ne è macchiato, su chi ne è stato complice e li ha favoriti, su chi ci ha lucrato; e tuttavia la giustizia si era dovuta fermare come davanti a un muro invalicabile, e molti dei colpevoli, esecutori e mandanti, impuniti: quel che si sapeva lo si era acquisito per vie «traverse», non ufficiali; non poteva dunque essere prodotto in tribunale, non costituiva prova. Pareva di sentire Pier Paolo Pasolini, quel suo: «Io so, ma non ho le prove…». Gli indizi, a dire il vero, c’erano tutti; non sufficienti, tuttavia, per scalfire quel muro. Non allora.

Tutto questo torna in mente al vedere «Brat Dejan» («Fratello Dejan»), del regista georgiano Bakur Bakuradze. Il conflitto in quella che un tempo era la Jugoslavia è stato raccontato in molti film, soprattutto dal punto di vista dei civili, le prime e vere vittime di ogni guerra; e quella che ha insanguinato i Balcani non fa certo eccezione. Bakuradze sceglie un campo meno scontato, perfino più rischioso (e si dirà poi, perché). Al centro del suo lavoro c’è Dejan Stanic, un ex generale dell’esercito di Belgrado accusato di abominevoli crimini di guerra, per anni latitante. Una vicenda che richiama da vicino quella di Ratko Mladic, arrestato nel 2011 dopo ben sedici anni di impunità. Il regista segue passo passo gli ultimi dodici mesi di «libertà» di Stanic: colpevole di imprescrittibili massacri per la giustizia internazionale; eroe per ex-miliziani, irriducibili nazionalisti e nostalgici. Vive in uno squallido isolamento, braccato, inseguito; attorno a lui individui che non sai bene fino a che punto sono complici fidati o carcerieri cinici che lo proteggono in nome di inconfessabili interessi «superiori». Il film è un continuo rimando con scene che mostrano la cattura di altri criminali di guerra, e flash back, cui fa da contrasto un assoluto mutismo del generale: sapienti primi piani su quel volto rugoso, a volte coperto da una folta, incolta barba bianca; altre volte rasato per meglio mimetizzarsi… Ma mai una parola, tutto è affidato «solo» alla gestualità, allo sguardo. Così lo indovini che a un certo momento pensa al suicidio; o che ha la tentazione di farsi scoprire e mettere la parola fine alla latitanza, come quando, senza alcuna precauzione, scende in città per un momento di raccoglimento sulla tomba della figlia.

Scelta non comoda e comunque discutibile, quella di Bakuradze: che non formula giudizi di sorta su Stanic e il suo orribile passato: non che arrivi a giustificarlo, ma rinuncia a giudicarlo, ritenendo, sembra, già sufficiente quella sua condanna al «buio» in cui si cela per sfuggire al suo passato e alla Corte dell’Aia. Fuori e intorno a lui tutto cambia in fretta, la società guarda altrove, i complici e gli amici di un tempo hanno nuovi alleati, colgono nuove, più lucrose opportunità.

Tutto questo, Bakuradze lascia scorrere attraverso gli occhi del silente Dejan; e tuttavia l’orrore non finisce, il terrore non si lava come una macchia fangosa; resta come macchia indelebile, e bisogna pur farci i conti. Quel che più conta, fa pensare. Passi che Dejan trovi rifugio per anni in basi militari segrete; chi lo protegge ha certamente un suo tornaconto; finito, ecco che Dejan viene liquidato. Ma perchè questo criminale viene ospitato, protetto, accudito da Slavko, un anziano contadino che vive in un piccolo, sperduto, miserabile villaggio di montagna?

Il protagonista, Marko Nicolic, popolarissimo in Serbia e con all’attivo 110 titoli tra film e televisione, corrisponde perfettamente alle «aspettative» di Bakuradze. Il suo Dejan è un personaggio tragico che non merita attenuante, come non ne merita nessun criminale di guerra. Bakuradze lo ammette senza reticenza: «Non intendo dare giudizi». Il discorso che porta avanti con «Brat Dejan» ha indubbiamente una sua logica e perfino, volendo, una sua coerenza. Altra cosa è condividerle. No, troppo comoda la scelta di Bakuradze. La responsabilità del giudizio, per quanto possa essere pesante, è qualcosa cui non ci si può e non ci si deve sottrarre. Ed è, questo, comunque, un bel tema di discussione.


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