L’immagine simbolo della stanza chiusa, presente già nei primi testi di Massini e in questo caso descritta come un quadrato di intonaco con una porta verde e il soffitto marcio, è il luogo – o l’inferno – dove appena arrivati si comincia a morire. Come succede al professor Ardèche, che da 32 anni vive dentro la sua aula fatiscente, “prendendosi cura” di 13 ragazzi. Vive rassegnato al peggio, sprofondato nel disincanto ironico di chi ogni anno vede cambiare nomi e facce, ma non le tipologie: “quello del primo banco”, “la falsaria”, “l’aspirante alla fuga”, “l’invisibile”, “il cartone animato”, consapevole del destino fallimentare che attende tutti quanti.
Comincia a confondere le stagioni, il primo giorno di scuola con il primo giorno di vacanza, facce e comportamenti a poco a poco assumono nei suoi pensieri la forma di maschere fisse; i rituali si ripetono con poche varianti, compresa l’ora di ricevimento dei genitori, durante la quale la sua pacatezza metodica e ciò che resta dell’antico idealismo, di una concezione illuminata e umana dell’insegnamento s’infrangono contro l’avidità dei parenti degli alunni, le loro paure, l’arroganza travestita da vittimismo, i fondamentalismi, l’asservimento ottuso e pervicace a regole religiose prossime alla superstizione, la protervia misogina dei padri, la disperazione da schiave del nuovo (in realtà, spaventosamente antico) mercato del lavoro di alcune madri (tema trattato da Daniele Vicari nel film “Sole, cuore, amore” con ben altra efficacia). Persino un’innocua gita scolastica viene funestata dagli implacabili decaloghi di regole (anche alimentari) dettati dai genitori devoti a differenti monoteismi o politeismi. Il povero Ardèche subirà persino un provvedimento disciplinare per aver condito con il vietatissimo aceto, nel corso della medesima gita, una banale insalata, unica pietanza permessa da tutti. Il multiculturalismo si traduce, nella comunità che molto si agita intorno e dentro la scuola situata nella banlieu di Les Izard, ai margini di Tolosa, in contrapposizione aggressiva e manichea, in belligerante, ininterrotto battibecco fra presunti depositari del Verbo (divino).
Può venire in mente “La classe” di Cantet, ma purtroppo quei luminosi e tristi frammenti di vita, pieni di freschezza e autenticità, si discostano parecchio dal catalogo di situazioni non particolarmente originali di “L’ora di ricevimento”. La consueta eleganza di scrittura di Stefano Massini, le sue lente volute ammalianti, sono qui oscurate dal sospetto di rimanere allo stadio di esercizio di stile, senza diventare, soprattutto nella prima parte – un lunghissimo monologo di Ardèche – azione teatrale. Le parole rimangono come sospese a mezz’aria, beandosi della propria raffinatezza, senza riuscire a spremere una sola goccia di sangue. La regia di Michele Placido, incerta sulla strada da prendere, peggiora la situazione. Si avverte una certa grevità e approssimazione nell’impostazione dei personaggi, alcuni dei quali virati in direzione caricaturale, con il contributo determinante di interpreti qua e là inadeguati. Salva spesso le sorti dello spettacolo Francesco Bolo Rossini nel ruolo del professorino di matematica prima fiducioso nelle sorti magnifiche dell’insegnamento e animato da entusiasmo positivista, poi sgomento e fusioso di fronte “all’apparir del vero”. Finirà per trovare la propria felicità minimale nella degustazione di una coppetta di gelato dopo gli esami di fine anno. Straordinaria la prova di Rossini, la cui gestualità e i cui ritmi insufflano nello spettacolo un respiro tragicomico di ascendenza cechoviana.