L’Africa brucia. E non si tratta solamente dei roghi appiccati un po’ ovunque per dare fuoco alla plastica e ai rifiuti che altrimenti non si saprebbe come smaltire, ma di migliaia, centinaia di migliaia di ettari di savana e foresta che ogni anno vengono inceneriti. Utilizzando un apposito tipo di satellite la NASA è in grado di monitorare gli incendi che avvengono nelle varie regioni del pianeta e, secondo quanto analizzato dal 2002 al 2011, il 70% di essi avvengono in Africa.
La principale causa degli incendi sono le attività agricole, e in particolare la “slash-and-burn agriculture”, ovvero una pratica che prevede il taglio e la successiva bruciatura della vegetazione o anche solo quest’ultima fase durante la stagione secca. Dopo aver rimosso gli alberi, in genere destinati alla produzione di carbone vegetale, si procede alla coltivazione del terreno fino a quando questo non sarà più fertile, normalmente dopo due anni. A quel punto viene abbandonato per cercare una nuova foresta da sfruttare.
Si tratta di una pratica ancestrale da sempre messa in atto dai popoli indigeni che ricominciavano a sfruttare la parte di foresta precedentemente coltivata dopo qualche decennio, tempo necessario a far tornare la situazione simile a come l’avevano trovata, ovvero con una fitta vegetazione e la fertilità del suolo parzialmente ripristinata.
Ma il forte incremento demografico degli ultimi cinquant’anni – la popolazione dell’Africa Sub-Sahariana è praticamente quadruplicata passando dai 264 milioni del 1966 ai 1.033 milioni del 2016 –, ha reso questa pratica non più sostenibile. Più persone significa più bocche da sfamare e quindi più domanda di manioca, mais, fagioli, carne e soprattutto carbone vegetale – si stima che il 90% della popolazione dell’Africa Sub-Sahariana utilizzi la carbonella per cucinare e la domanda non accenna certo a diminuire… Continua su vociglobali