Prendete una delle nostre tante periferie dimenticate da Dio e dal potere: uno di quei luoghi in cui o arriva CasaPound o arriva la criminalità organizzata o, nella maggior parte dei casi, entrambi. Prendete un bambino che vive sotto la soglia di povertà, un emarginato, una famiglia che non riesce ad arrivare alla fine del mese e, spesso, neanche alla terza settimana. Prendete le realtà peggiori del nostro Paese e immaginate non che gli Azzurri avessero vinto i Mondiali come nel 2006, una prospettiva francamente improbabile, come tutti hanno sempre saputo fin dall’inizio di quest’avventura, ma che fossero arrivati quanto meno ai quarti di finale dei medesimi. Immaginate la gioia di queste persone, le strade e i balconi invasi di bandiere, le pizzerie che si riempiono, le bottiglie di birra che vanno giù una dietro l’altra, il caldo e i bagni nelle fontane, le esultanze genuine e sfrenate, i caroselli di automobili e la sensazione collettiva di poter essere felici almemo per qualche istante. Se siete molto colti o molto appassionati di sport e di giornalismo, poi, ricordatevi l’editoriale che Giorgio Tosatti scrisse all’indomani del trionfo azzurro agli Europei casalinghi del ’68, quando i ragazzi di Uccio Valcareggi tornarono a vincere qualcosa trent’anni dopo i fasti dell’Italia Pozzo. Tosatti arrivò addirittura a chiedere alla luna di fermarsi su quel prato felice, dopo aver irradiato con la sua luce argentea le torce accese con i giornali sugli spalti dell’Olimpico, mentre tutta l’Italia impazziva di felicità in uno degli anni più turbolenti che si ricordino a memoria d’uomo.
E pensate ai maturandi, costretti ad alternare lo studio alle partite, il cuore in gola per la Nazionale a quello per le varie prove di un esame che, da sempre, segna nel profondo chiunque lo affronti.
E come dimenticare, nel mio caso, il pomeriggio che trascorsi a vedere la Nazionale di Prandelli che si lasciava umiliare ed eliminare dall’Uruguay quando l’indomani avevo ben due esami di sociologia? Per la cronaca, pesi, rispettivamente, 30 e 30 e lode.
Ora immaginate il nostro Paese la prossima estate. In marzo andremo a votare e, con ogni probabilità, dalle urne non verrà fuori nulla di decente: non un governo, non una maggioranza credibile e, temo, nemmeno una rappresentanza parlamentare complessivamente all’altezza. Lo spread si alzerà, le preoccupazioni per la sostenibilità dei nostri conti pubblici arriveranno alle stelle, quelle polveriere che sono ormai i nostri partiti esploderanno definitivamente, vittime delle proprie contraddizioni, le polemiche e le tensioni sul tutto e sul nulla saranno all’ordine del giorno e la sensazione di precarietà esistenziale e di vero e proprio sfacelo diventerà, ancor di più, patrimonio collettivo di una comunità sfibrata.
Se fra giugno e luglio, nelle calde sere d’estate, avessimo avuto almeno lo sfogo costituito dagli Azzurri, il clima si sarebbe leggermente svelenito, le preoccupazioni avrebbero lasciato spazio a qualche sorriso e l’umor nero del Paese ne avrebbe sicuramente beneficiato. Qualcuno obietterà che il calcio equivale agli antichi “circenses”, che si tratta sostanzialmente di un’arma di distrazione di massa, ma questo qualcuno, evidentemente, o non ha mai letto Pasolini o non è mai uscito dalla sua prigione dorata o, con ogni probabilità, entrambe le cose. Non sa, chi sostiene questa tesi, che questo grande romanzo nazionalpopolare che corre sui prati e profuma di erba e di sudore è un qualcosa che attiene alla nostra sfera più intima, che racchiude in sé la dimensione privata e quella pubblica, che ci rende protagonisti di un’emozione democratica, accessibile a tutti, appassionante proprio perché chiunque ha il diritto e la possibilità di seguirla. È uno dei rari esempi di cultura alla portata delle masse, di passione civile senza impegno, se non quello emotivo e quello, ragguardevole, dei calciatori che ammiriamo allo stadio o davanti allo schermo del televisore, è un momento di gioia gratuita di cui chiunque, dall’intellettuale premio Nobel al netturbino, avverte il bisogno.
È il romanzo di tanti popoli che si incontrano e si scontrano civilmente, è un insieme di storie e di racconti, di aneddoti e di vissuti individuali che si fanno storia e narrazione globale, è una favola nella quale non abbiamo mai smesso e non smetteremo mai di credere, per il semplice motivo che aveva ragione Borges quando asseriva che “ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada lì ricomincia la storia del calcio”.
Aveva ragione Borges e avevano ragione Soriano e Galeano: altri due magnifici cantori di gesta pallonate, in un intreccio di epica e politica, sport e costume, tradizione e cultura, in un’analisi profonda che profuma di popolo, di quartiere, di affrancamento dalla povertà e di soddisfazione intesa anche come opportunità di riscatto.
Qualcuno oggi, dopo aver irriso il calcio e lo sport per anni, si è finalmente domandato se per caso essi non generino anche PIL, se non costituiscano una mano santa per l’economia, se non possano trasformarsi anche in un volano di opportunità e in un mezzo di integrazione e di inclusione, specie in un Paese devastato e in guerra con se stesso come il nostro che avrebbe, dunque, un disperato bisogno di riscoprirsi unito nelle sue diversità o, per meglio dire, dalle sue diversità.
Devono essere gli stessi che per anni hanno deriso la richiesta di accettare la sfida delle Olimpiadi, rispondendo che Roma non se le può permettere perché c’è la mafia e firmando così, di fatto, la nostra dichiarazione di resa davanti al mondo.
Devono essere gli stessi che, da almeno dieci anni, tollerano vertici federali che nessun altro paese occidentale sarebbe disposto a tollerare.
Devono essere gli stessi che fanno spallucce di fronte ai sempre più frequenti casi di fascismo, razzismo e xenofobia che infestano i nostri stadi, fino alla tragedia del fascistello da strapazzo che è andato ad esibire la bandiera della Repubblica Sociale Italiana e il saluto romano nella città martire di Marzabotto.
Devono essere gli stessi secondo cui il calcio e lo sport non sono mai questioni politiche ma, al massimo, divertimenti per ingenui sognatori o per gonzi che non hanno di meglio da fare o, poveretti, non hanno un livello culturale sufficiente per dedicarsi ad attività intellettualmente più nobili.
Devono essere gli stessi secondo cui va benissimo che il ministro dello Sport sia uno che bisogna mettere per forza al governo, in nome di accordi pregressi, ma non lo si vuole in ruoli importanti, declassando pertanto lo sport a questione secondaria e priva di ogni valore.
Devono essere gli stessi che, dopo aver compiuto tutte le menzionate azioni, ora si stracciano le vesti e lacrimano come prefiche al cospetto di un fallimento epocale, emblematico del declino e della deriva dell’intero Paese che nel calcio, come del resto nella tv, ha il suo specchio fedele.
Diceva, del resto, Oliviero Beha che se il calcio va malissimo benché la classe politica avrebbe tutto l’interesse a che almeno esso funzionasse a dovere è perché la classe dirigente calcistica e quella politica sono, in molti casi, o collegate o addirittura composte dalle stesse persone, in un trionfo di mediocrità e inadeguatezza senza precedenti.
Pensate davvero che la colpa di questo sfacelo sia tutta del povero Ventura? Pensate che, con il livello medio che esprime il calcio italiano, un grande allenatore verrebbe mai a prendersi una simile gatta da pelare, oltretutto con un ingaggio nettamente inferiore a quello che sarebbe disposto ad offrirgli qualunque club di livello mondiale? Certo, l’amor di Patria dovrebbe prevalere ma non possono essere i liberisti sfrenati a travestirsi, improvvisamente, da keynesiani e, udite udite, da persone dotate di un’etica e di un minimo di dignità.
Pensate a cosa abbiamo perso e non crediate che il terreno perduto possa essere recuperato nell’arco di qualche mese: ci vorranno anni, una riforma profonda del sistema Italia, non solo sportivo, un allenatore di altissimo livello, la valorizzazione dei vivai, il coraggio di puntare sui nostri giovani migliori e una lotta feroce contro ogni forma di inciviltà, ormai divenuta abituale in qualunque categoria.
Un’ultima riflessione dedicata alle lacrime e alla bellezza interiore di Buffon: l’Italietta contemporanea non si merita un capitano così, anche se ci auguriamo di cuore che la Nazionale scelga di ripartire proprio da lui e, possibilmente, da Maldini. Abbiamo bisogno di dirigenti di questo calibro, nulla di meno: i nostri simboli, le nostre bandiere, le ultime ancore cui aggrapparsi per dimostrare alla nostra gente, e in particolare ai ceti sociali più umili, che è ancora possibile non arrendersi al degrado.
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