Quarantacinque anni senza Ennio Flaiano e ci si guarda intorno spaesati. Quanto ci mancano il suo genio, il suo brio, la sua caustica ed irriverente grandezza, la sua capacità di prendere in giro il mondo intero senza mai mancare di rispetto a nessuno, la sua inesauribile vena creativa, la sua cultura poliedrica, la sua saggezza, il suo rapporto di amore e odio con Roma, la sua gentilezza d’animo e la sua bellezza interiore! Quanto ci mancano i suoi epigrammi, i suoi aforismi, le sue punture di spillo e le sue frecciate al curaro che centravano sempre il bersaglio, mettendo in risalto la fragilità e i difetti di un Paese in cui, come sosteneva Gobetti, il fascismo ha sempre costituito “l’autobiografia della nazione” e la ricostruzione è avvenuta a colpi di colate di cemento e altre vergogne!
Ennio Flaiano, pescarese di nascita e romano d’adozione, è stato uno dei simboli del nostro panorama culturale negli anni d’oro del cinema, della letteratura e dell’editoria, scrivendo alcune fra le più belle sceneggiature che siano mai state scritte e vincendo il primo Premio Strega, nel ’47, con “Tempo di uccidere”. Flaiano, che partecipò a suo tempo alla guerra d’Etiopia, scrisse in pochi mesi questo romanzo, su esplicita richiesta dell’amico Leo Longanesi, e ne venne fuori una disincantata analisi di quegli anni, senza retorica e senza cattiveria, con lo stile e il gusto per la vita e per la critica che lo hanno sempre caratterizzato, con annesso sberleffo nei confronti del regime fascista, della sua violenza, della sua assurdità e delle due volgarità razziste nonché dell’ipocrisia e della piaggeria ciarlatana dei tanti che, dopo la guerra, avevano cambiato bandiera ma non animo, non rinunciando, per manifesta incapacità di compiere un passo del genere, alla propria mentalità servile.
Un gigante, dunque, un sognatore non pentito, un utopista concreto, sapido nelle battute, aspro nelle riflessioni e sempre e comunque capace di illuminare il dibattito pubblico con la propria grandezza morale; un combattente assoluto e mai disposto ad arrendersi, come quasi tutti i disincantati e gli spiriti autenticamente liberi. Sosteneva, ad esempio, che non ci fosse guaio peggiore per un genio che essere compreso e lui, per sua fortuna, non sempre lo fu.
Scriveva con autentica magia, quasi con furore, con poliedrica creatività, con sincera ironia e straordinaria capacità autoironica, pronto anche a sbagliare ma mai per conto terzi, assumendosi fino in fondo le proprie responsabilità e rispondendone in prima persona senza mai nascondersi. Scrisse, fra le altre cose, a proposito del rapporto fra pensiero, parola e libertà: “La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia”. E a proposito di quell’essere meraviglioso e, al tempo stesso, tragico che è l’uomo: “L’uomo è un animale pensante, e quando pensa non può essere che in alto. È questa la mia fede. Forse l’unica. Ma mi basta per seguire ancora con curiosità lo spettacolo del mondo”.
Flaiano, insomma, è stato un intellettuale a tutto tondo: giornalista, scrittore e, in particolare, sceneggiatore di alcuni dei massimi capolavori dell’era aurea del cinema italiano, collaborando con registi come Fellini, Monicelli, Lattuada, Germi e molti altri ancora. Visse, per dirla con parole sue, “con i piedi fortemente piantati nelle nuvole”, portando con sé, ovunque, quell’atmosfera da caffè letterario che era il suo habitat naturale, il suo mondo di riferimento e il suo valore aggiunto, lui che ha sempre conservato, anche negli ultimi giorni di vita, prima che un secondo infarto lo stroncasse a soli 62 anni, la curiosità nei confronti del prossimo nonché una peculiare abilità nello scrutare, nello scoprire e nel cercare risposte negli occhi e nelle idee degli altri, pensando in profondità e ponendo la propria saggezza e le proprie intuizioni al servizio della comunità.
Concludiamo quest’articolo con uno dei suoi epigrammi più significativi, dedicato ad un giornalista e meridionalista di valore scomparso di recente all’età di 92 anni: “Alle cinque della sera / sulla piazza di Matera / da una macchina di lusso / scende Giovannino Russo / del Corriere della Sera / alle cinque della sera / sulla piazza di Matera. / Che carriera!”.
Anche da qui si comprende la sua attenzione nei confronti degli altri, la sua bellezza interiore e la gentilezza che lo contraddistingueva quando si lasciava andare ad uno dei suoi proverbiali sfottò, mai cattivi o volgari, anche perché non ne sarebbe stato capace.