Tutti in piedi per un attimo di silenzio. La notizia della strage di fedeli della moschea “al-Rawdah” del villaggio di Bir al-Abed, nel nord del Sinai è arrivata ieri pomeriggio alla Camera dei Deputati a Roma, dove si stava svolgendo il Seminario del Gruppo Speciale sul Mediterraneo e il Medio Oriente (GSM) dell’Assemblea Parlamentare della Nato. Oltre 150 parlamentari in rappresentanza di 35 Paesi del mondo – spaziando dai Paesi membri della Nato, ai Paesi del Golfo, a quelli della sponda Sud del Mediterraneo – si sono uniti nella condanna unanime al terrorismo e nel cordiglio per le vittime egiziane. «Questa è la prova che Daesh uccide centinaia di migliaia di musulmani. Invochiamo Allah per una pronta guarigione dei feriti», ha detto il rappresentante dell’Egitto. Proprio ieri, in apertura della due giorni romana dedicata al contrasto all’estremismo violento e prevenzione alla radicalizzazione, l’onorevole Andrea Manciulli, nella sua veste di capo della delegazione italiana presso l’Assemblea Parlamentare della Nato, aveva sottolineato che «La maggior parte delle vittime del terrorismo sta dall’altra parte del Mediterraneo». A chi si chiedeva se la caduta di Mosul e Raqqa avrebbe significato la fine di Daesh, la risposta si è imposta da sola, in un modo tragico: 235 morti e un centinaio di feriti. «Oggi in Egitto Daesh ha mandato il suo messaggio, che è ancora vivo», ha detto Robin Wright, joint fellow all’Istituto di pace degli Stati Uniti.
«E’ finito il potere militare di Daesh – ha incalzato il ministro dell’Interno Marco Minniti -, ma non è finita la minaccia. Anzi, l’attività terroristica non convenzionale potrebbe essere rinvigorita da questo smacco. E si tratta di un terrorismo a prevedibilità zero, perché si basa sui cosiddetti “lupi solitari”».
E sui lupi solitari si è soffermato anche l’on. Manciulli, incaricato di presentare un Rapporto sulla minaccia di Daesh e al-Qaeda all’Europa. «Questo Rapporto vuol far comprendere che la minaccia terroristica da quando è nata col qaedismo fino alla sua evoluzione attuale, è molto cambiata. L’andamento mediatico è stato il vero cuore dell’espansione del terrorismo in Occidente. Oggi sia al-Qaeda che Daesh sono consci che non occorre più attuare azioni complesse come quelle delle Torri Gemelle, per ottenere rilevanza mediatica a livello globale. L’obiettivo era instillare la paura. E oggi, anche una semplice azione di un folle armato di coltello ha il medesimo impatto informativo dello schianto di un velivolo contro un grattacielo. Questa tipologia di minaccia non si può combattere solo militarmente. La visione manichea, promossa dalle ideologie islamiste radicali che concepiscono la vita come una perenne lotta fra il bene e il male, fra territorio dell’Islam e territorio della miscredenza, facilita il reclutamento tra i giovani insoddisfatti, marginalizzati dal punto di vista economico, sociale e politico. Pertanto, servono anche il contrasto preventivo e la rieducazione di chi ha sbagliato. E serve un’unità d’intenti, perché la minaccia che abbiamo di fronte è una minaccia globale e globalmente la dobbiamo affrontare».
Molto ha insistito Marco Lombardi, professore alla Cattolica di Milano e direttore del Centro Ricerche ITSTIME (Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies), sulla capacità di comunicazione di Daesh. Perché se è vero che «una comunicazione ben fatta colpisce bene il target, è anche vero che mi svela completamente la fonte. Dopo gli attacchi di Barcellona e Londra, Daesh ha mantenuto un basso profilo anche sul fronte comunicativo, niente più grandi rivendicazioni, ma una frammentarietà di messaggi che invade il web. Uccidere delle persone per il terrorismo non è l’obiettivo, è uno strumento. L’obiettivo il terrore. Quanti proclami di Osama Bin Laden sono rimasti disattesi? Eppure, hanno suscitato la stessa paura come se fossero stati realizzati. In questa fase magmatica, in questo rumoreggiare di voci, dobbiamo capire che cos’è davvero minaccia e che cos’è propaganda. Daesh ci ha posto una sfida che non abbiamo ancora vinto: dobbiamo pensare da terroristi se vogliamo sconfiggerlo».
Per il professor Francesco Strazzari, professore associato di Relazioni Internazionali alla Scuola di Alti Studi Sant’Anna di Pisa: «Bisogna evitare la definizione semplicistica del termine “radicalizzazione”, per quanto riguarda l’Africa. I radicalizzati africani poco sanno di teologia, molto invece hanno a che vedere con la crisi del sistema politico. Chi si arruola, si pone come militante contro dei dittatori considerati corrotti. Ed ecco allora che la maggior parte degli attacchi sono perpetrati contro le Istituzioni statali. Sono dinamiche che hanno radici locali, non è l’importazione di un concetto medio orientale».
Sul fronte dell’uso dei termini corretti anche il rappresentante del Qatar. «Basta usare il termine Stato islamico, perché il califfato islamico è finito secoli fa. Daesh è un’organizzazione diabolica. Parlare di Stato islamico è fare altra violenza contro l’Islam».
«Da una prospettiva Euro-centrica, siamo chiamati ad affrontare sfide provenienti da due archi di crisi e instabilità, uno a sud, che dal Medio Oriente investe la sponda nord-africana e la fascia sub-sahariana, e uno a est, che dal Baltico abbraccia il Mar Nero ed il Mediterraneo orientale», ha affermato il generale Claudio Graziano, Capo di Stato Maggiore della Difesa, che ha anche illustrato la sussistenza di una “relazione triangolare” tra l’instabilità di alcuni Paesi, il terrorismo internazionale e i traffici illegali, compreso quello più odioso di esseri umani. «Il contrasto agli attuali fenomeni di instabilità – ha concluso – costituisce quindi una complessa questione di sicurezza, sia internazionale che nazionale, che impone un approccio multidisciplinare con il coinvolgimento di tutti gli attori del Sistema Paese».
Infine, dal rappresentante dell’Egitto, è venuta una richiesta. «Noi stiamo lottando per non cadere come sono caduti altri Stati. Siate solidali con l’Egitto, non solo a parole, ma con i fatti».