Nel 2004, quando si consegnò spontaneamente al Tribunale dell’Aja per l’ex-Jugoslavia insieme agli altri cinque ufficiali croato-bosniaci accusati di crimini di guerra, Jadranko Prlić disse che con quel gesto intendeva lottare non per un passato migliore, ma per un futuro migliore. Che fosse sincero o meno, a tredici anni di distanza e all’indomani della sentenza d’appello non si può dire che quell’auspicio si sia esaudito. Il futuro di Prlić resta in carcere, così come (anche se per poco) quello di quattro dei cinque co-imputati. Slobodan Praljak invece, che si è clamorosamente suicidato per avvelenamento subito dopo la lettura della sentenza, rischia di ottenere purtroppo la piena canonizzazione a martire del nazionalismo croato.
Per la Bosnia Erzegovina e i suoi vicini inizia un’era “post-ICTY” con pochi motivi di sollievo e molti più interrogativi del previsto.
La sentenza
La sentenza d’appello emessa ieri a carico del sestetto ricalca nelle motivazioni quella di primo grado emessa nel 2013 e mantiene completamente inalterate le condanne stabilite allora. I sei imputati, che tra il 1992 e il 1994 furono i leader politici e militari della Herceg Bosna (repubblica autoproclamata e non riconosciuta all’interno della Bosnia Erzegovina) sono stati condannati per crimini in otto municipalità della BiH (Mostar, Prozor, Gornji Vakuf, Jablanica, Ljubuški, Stolac, Čapljina e Vareš) e cinque centri di detenzione.
Il Tribunale ha stabilito che i sei erano parte di un’azione criminale associata con l’obiettivo di creare un’entità croata in Bosnia Erzegovina fondata sulla dominazione etnica e quindi sulla “pulizia” della popolazione musulmana attraverso un sistema di deportazione forzata, uccisioni arbitrarie, distruzione di istituzioni religiose, culturali e di proprietà individuali, prigionia e lavori forzati in centri di detenzione, e altri crimini contro l’umanità.
Il verdetto è identico a quello del primo grado. Ciascuno dei sei ha ottenuto le stesse condanne del 2013, per un conteggio complessivo di 111 anni di reclusione. Jadranko Prlić, ex-premier della Herceg Bosna, si è visto dunque confermare la pena più alta, 25 anni, seguito dai generali dell’HVO (le milizie dell’Herceg Bosna) Bruno Stojić e Slobodan Praljak (20 anni ciascuno), dal capo della polizia Valentin Čorić (16 anni) e dall’ufficiale Berislav Pušić, supervisore di esercito e polizia.
Poiché i condannati hanno già trascorso 13 anni in carcere, e per prassi vengono di norma rilasciati dopo avere scontato due terzi della condanna, la scarcerazione sarebbe di fatto vicina, e nel caso del suicida Praljak sarebbe potuta avvenire tra qualche mese.
Una conferma delle pene di questo tipo era tutt’altro che scontata. Primo, per la prassi dell’ICTY: su 9 casi in cui si è completato l’appello, in 8 si è giunti a riduzioni (ancorché minime, in molti casi) o ad assoluzione piena. Secondo: alcuni analisti alla vigilia ritenevano possibile una riduzione della condanna, in virtù degli ultra-restrittivi criteri di attribuzione delle responsabilità per crimini di guerra introdotti in alcuni processi degli ultimi anni (soprattutto quelli Gotovina e Perišić della ampiamente criticata svolta del 2012-13).
Molte condanne della sentenza di primo grado si basavano non solo su crimini direttamente ordinati o commessi, ma anche su quelli su cui gli imputati “erano stati informati” e “non presero alcuna misura”, “depistarono le indagini”, e che dunque “accettarono”. In altre parole, questo processo richiedeva, come e forse più che in altri casi, l’applicazione della consolidata dottrina della JCE, l’azione criminale associata (joint criminal enterprise), elaborata per facilitare l’attribuzione di responsabilità in conflitti con attori diversi (statali, parastatali, non-statali) dove è più complesso ricostruire la catena di comando.
Questo era appunto il caso della Herceg Bosna e della Repubblica di Croazia, per giunta in un conflitto avvenuto in tempi relativamente ridotti come quello croato-musulmano, che si è svolto in poco più di un anno, tra la fine del 1992 e l’inizio del 1994.
Una delle argomentazioni fondanti della difesa era dunque l’impossibilità di dimostrare l’effettivo controllo degli ufficiali sui crimini. Questa è stata però rigettata dalla corte, che anzi ha accettato la richiesta dell’accusa di riconsiderare la “responsabilità superiore [superior responsibility] per avere evitato di punire certi crimini”, che non era stata provata nel primo grado.
Il riassunto della sentenza (di 26 pagine, disponibile qui ; la versione intera, che supera le 1.000 pagine, qui ) è intricato, con numerosi nuovi punti di condanna oppure di assoluzione su singoli episodi e capi di imputazione rispetto al primo grado, ma che si rivelano ininfluenti per il ricalcolo della pena.
Vi sono molte “opinioni dissenzienti” espresse, di solito con orientamento opposto, dal giudice Liu Daqun (più garantista) e da Fausto Pocar (più vicino alle posizioni dell’accusa), che fanno immaginare un giudizio molto sofferto con un importante ruolo di mediazione del presidente di corte Carmel Agius.
Il tutto restituisce una sentenza finale con una coerenza interna e soprattutto con una continuità rispetto al passato processuale e alla giurisprudenza consolidata e che ridà dignità all’operato del Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia dopo i già citati sbandamenti del 2012-13, nel giorno del suo ultimo verdetto prima della chiusura definitiva.
Tra le imputazioni prive di unanimità vi è quella sul Ponte Vecchio di Mostar, simbolo della città e uno dei monumenti più importanti e amati del paese, bombardato e distrutto dall’HVO tra l’8 e il 9 novembre 1993.
Il Tribunale ha accolto (ma con il dissenso del giudice Pocar) il punto sollevato dalla difesa, secondo cui la distruzione del ponte non aveva l’intento esplicito di terrorizzare la popolazione civile, come invece aveva sostenuto il primo grado. Per il resto, si è confermata l’accusa secondo cui la distruzione creò un danno sproporzionato e ingiustificato, benché si sia riconosciuto nel Ponte Vecchio un “obiettivo militare” perché utilizzato dall’esercito bosniaco nelle sue attività di rifornimento.
Questa attenuazione del carattere “urbicida” dell’HVO ai danni dei civili di Mostar è però, per così dire, compensata dall’accoglimento di argomenti dell’accusa sulla distruzione di dieci moschee a Mostar Est, che sono state ora riconosciute come una distruzione arbitraria rispetto al primo grado.
La responsabilità della Croazia
L’implicazione della Croazia nel conflitto in Bosnia Erzegovina era uno dei punti cruciali, e più attesi, della sentenza. La sentenza di primo grado aveva riconosciuto Franjo Tuđman come membro fondamentale dell’azione criminale associata che, attraverso la pulizia etnica, mirava a costruire un’entità politica che si sarebbe annessa più o meno direttamente alla Croazia.
Il secondo grado ha confermato pienamente questo giudizio, che ormai alcuni considerano come una sorta di simbolica messa in accusa (se non di condanna) postuma del Tribunale a Tuđman, morto nel 1999 e da tempo eletto a padre della patria dalla destra croata, al potere dal 2015 a oggi e a lungo durante la transizione.
La sentenza afferma esplicitamente che la Croazia è stata forza occupante in diverse municipalità della Bosnia Erzegovina, attraverso l’HVO in funzione di attore “proxy” strutturato. Rigettando gli argomenti a riguardo della difesa, si reitera il ruolo di Tuđman e dei vertici di Zagabria nell’associazione criminale. Si riafferma, infine, il ruolo decisivo di Slobodan Praljak come cerniera di collegamento tra Croazia e Herceg Bosna, in quanto svolgeva incarichi sia per la prima (assistente del ministero della Difesa e generale di Zagabria) che per la seconda (Capo di stato maggiore dell’HVO).
Riconoscere la responsabilità diretta delle istituzioni di Zagabria significa affermare la natura internazionale del conflitto, e potrebbe rilegittimare la visione della guerra in Bosnia Erzegovina come “di aggressione” anziché (o più che) “civile”, con importanti ripercussioni nell’interpretazione storica e nell’eventualità di future riparazioni simboliche e giudiziarie.
Questa formulazione mette la Croazia in imbarazzo anche rispetto alla Serbia, il cui coinvolgimento nel conflitto bosniaco è stato appena accennato nella sentenza Mladić e verrà riesaminato nel processo in carico al MICT (Meccanismo residuale) ai danni degli ufficiali Stanišić e Simatović, ma finora non è mai stato individuato così esplicitamente come nelle due sentenze Prlić.
La situazione potrebbe investire direttamente i rapporti politici tra Croazia e Bosnia Erzegovina, che negli ultimi anni hanno toccato diversi punti bassi . Mentre il governo di Sarajevo lamenta le interferenze di Zagabria a supporto dei nazionalisti croato-bosniaci dell’HDZ BiH in favore di una terza entità (in altre parole, la ricreazione della Herceg Bosna), la Croazia esprime continuamente preoccupazione per lo stallo politico in Bosnia Erzegovina e la presunta inazione contro il radicalismo islamico.
Emir Suljagić, autore del noto libro Cartoline dalla fossa e dirigente dell’Alleanza Civica (Gradjanski Savez), partito bosniaco non-etnico, spiega a OBCT: “Questa sentenza, oltre che giuridiche, ha implicazioni politiche. La più importante è che Zagabria ora ha solo un’opzione: prendere le distanze da Tuđman, dal tuđmanismo, e dall’eredità di Tuđman in Bosnia Erzegovina. La Croazia deve rinunciare all’idea di Herceg Bosna, alla ricreazione di una Banovina croata , e rinunciare alla ‘libanizzazione’ della Bosnia Erzegovina come linea politica ufficiale”.
Sull’involuzione delle relazioni tra i due paesi, Suljagić afferma: “Non vedo nessuno con l’integrità e la visione che ha mostrato Stjepan Mesić [presidente della Croazia nel periodo 2000-2010] quando ha scelto di distanziarsi radicalmente dal tuđmanismo e troncare con l’eredità criminale che questo ha lasciato in Bosnia Erzegovina. La mitomania [con cui si dice che] la Croazia ha salvato la Bosnia Erzegovina può servire per mobilitare la destra, ma non può essere la piattaforma per una politica regionale, e soprattutto non può essere la base per un futuro migliore”.
“Ammettere, non uccidersi”
“Perché questi cosiddetti eroi non possono ammettere la propria responsabilità, o guardare la verità negli occhi? Vedendo come erano capaci di dare ordini, avrebbero dovuto essere pronti ad ammettere la propria responsabilità. Devono ammettere, non uccidersi”. Enisa Ahmić, sopravvissuta al massacro del villaggio di Ahmići (uno dei più gravi commessi dall’HVO in Bosnia Erzegovina, con 116 vittime, di cui 40 erano parenti di Enisa) ha commentato con queste parole la sentenza e in particolare il suicidio di Slobodan Praljak.
Tra le associazioni di vittime e diritti umani si è manifestato un certo senso di riparazione per le condanne confermate, analogamente a quanto avvenuto con la sentenza Mladić della scorsa settimana. Ma vi è anche una profonda delusione per le conseguenze del drammatico gesto di Slobodan Praljak, che ha finito per accentrare su di sé l’attenzione dei media regionali e del mondo. La morbosa curiosità per la violenza autoinflitta, per i dettagli biografici e caratteriali del generale ex-scrittore ed ex-regista, ha occupato lo spazio che almeno in questa giornata, si sarebbe dovuto riservare alle vittime dei suoi crimini.
In un paese che presenta un generale sovraccarico di memorie e un abuso a sfondo politico delle sofferenze private, ci sono però ancora tante vittime che lamentano, con qualche ragione, di essere state a lungo rese invisbili o messe in secondo piano, intimidite anzitutto dai nazionalisti dell’“altro” gruppo, ma anche emarginate dei nazionalisti del “proprio” gruppo, per tatticismi politici o rivalità regionali delle lobby di potere.
I crimini compiuti in Bosnia centrale e in Erzegovina dall’HVO (una forza che per lunghi tratti è stata formalmente alleata dell’esercito bosniaco contro le milizie della Republika Srpska, e che quindi occupa un posto controverso anche nella narrazione bosniaco-centrica della guerra) hanno probabilmente ricevuto meno attenzione di altri, almeno finché la giustizia internazionale non ha fatto il proprio corso.
Anche per queste ragioni, doveva essere il giorno di Enisa, degli abitanti di Stupni Do sopravvissuti al rastrellamento dell’ottobre 1993 in cui vennero uccise brutalmente 37 persone, degli ex-internati dei campi di Dretelj, Gabela e Heliodrom che hanno resistito a maltrattamenti e torture.
Invece questo sarà ricordato come il giorno del generale Praljak, il cui gesto riporta alla mente il comportamento di un altro generale, sette giorni prima nella stessa aula. Sia Ratko Mladić che Slobodan Praljak hanno incarnato, fino all’ultimo, l’ossessione di rimanere in scena e perpetuare la propria guerra con ogni mezzo, il primo con l’ostentazione della propria debolezza, il secondo con la messa in mostra del sacrificio estremo. Un gesto che non a caso ha suscitato l’ammirazione di un avversario, l’ultranazionalista serbo Vojislav Šešelj, che ha twittato: “Oggi all’Aja abbiamo assistito a un atto eroico, che è da rispettare”.
La vicinanza temporale tra le due sentenze ha mostrato la straordinaria coincidenza di immaginari, linguaggi e tattiche tra nazionalisti nella regione. Da più parti si ascoltano vere e proprie dottrine dell’orgoglio per il ruolo della propria parte durante gli anni Novanta. “Tacito orgoglio” aveva annunciato il ministro della Difesa della Serbia Aleksandar Vulin. “Tempo dell’orgoglio” ha detto il membro croato della presidenza bosniaca Dragan Čović.
Si glorificano i condannati e si demonizza il tribunale, se possibile con la copertura spirituale dei rispettivi cleri. Mentre Irinej, patriarca della Chiesa Ortodossa Serba descrive la condanna a Mladić come “un’azione diabolica”, nella cattedrale cattolica di Santa Maria di Mostar, il giorno prima della sentenza si celebra una messa a supporto dei sei imputati croato-bosniaci.
I crimini di guerra non si minimizzano più, si rivendicano apertamente, e le condanne agli individui responsabili vengono collettivizzate. “La sentenza è un crimine [sic] contro i rappresentanti del popolo croato in Bosnia”, ha affermato ieri Dragan Čović, lo stesso che significativamente non ha rilasciato dichiarazione alcuna dopo la condanna di Mladić, nonostante le sofferenze che quest’ultimo ha causato a migliaia di connazionali croato-bosniaci e croati di Croazia.
Čović è stato zitto per motivi mestamente tattici, per i suoi buoni rapporti con i vertici della Republika Srpska e perché l’imminente sentenza ai suoi ex-compagni di partito l’avrebbe messo in possibile imbarazzo. Di altri silenzi, con meno tattica, più rispetto e più accettazione per le sofferenze di tutti, ci sarebbe un grande bisogno.
Pubblicato su Osservatorio Balcani il 30 novembre 2017