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Africa, i media ne parlino nel modo giusto

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«Negli ultimi anni non vi è stata sufficiente consapevolezza sul fatto che i problemi dell’Africa sono i problemi dell’Europa. Non è solo la geografia a legarci, ma comuni interessi strategici, grandi sfide e opportunità da affrontare insieme. È giunto il momento di mettere l’Africa in cima all’agenda dell’Unione». Con queste parole del presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, e in vista del vertice UE (Unione Africana) di Abidjan, si è aperta ieri la settimana dell’Africa al Parlamento europeo. L’appuntamento principale è la conferenza prevista nel pomeriggio di mercoledì 22 novembre nell’emiciclo, che sarà aperta alle 14 dallo stesso Tajani. Interverranno, tra gli altri, il Presidente della Repubblica Centrafricana, Faustin-Archange Touadéra, l’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza comune, Federica Mogherini, il Presidente del Parlamento Panafricano, Roger Nkodo Dang, il Presidente della Banca europea per gli investimenti, Werner Hoyer, il vicepresidente della Commissione europea, Andrus Ansip, il Ministro degli Esteri del Mali, Abdoulaye Diop, i Commissari europei Günther Oettinger, Karmenu Vella, Neven Mimica e Mariya Gabriel, e i Commissari dell’Unione Africana Amani Abou-Zeid, Albert Muchanga e Josefa Leonel Correa Sacko. «Dobbiamo guardare ai giovani africani – ha continuato Tajani -. Coinvolgerli in un progetto che metta in campo strumenti efficaci per dare loro vere prospettive e la speranza di costruire un futuro di stabilità, sicurezza e prosperità, nella loro terra. Se falliremo, non saranno decine di migliaia, ma milioni coloro che, nei prossimi anni, cercheranno con ogni mezzo una vita migliore in Europea. Dobbiamo trovare il consenso politico per un cambiamento radicale della nostra azione in Africa, a cominciare da un bilancio pluriennale dotato di risorse adeguate. Penso ad un piano Marshall, in grado di attirare investimenti per centinaia di miliardi e sostenere la transizione del continente verso una base manifatturiera sostenibile, un’agricoltura moderna, infrastrutture di rete. È necessario agire ora, prima che sia troppo tardi, con un’Unione capace di parlare con una voce unica».

Chi scrive, che si occupa da tempo di Africa, pensa che sia già troppo tardi, ma soprattutto pensa che di denaro destinato allo sviluppo e poi evaporato o usato per altri scopi ne sia già stato stanziato abbastanza. Il che non significa fermiamo i finanziamenti, ma controlliamo in quali mani vanno a finire. Quali sono stati negli anni gli obiettivi? Innanzitutto, accaparrarsi più risorse possibili, sfruttando un continente ricco. Più di recente, il problema è diventato contenere l’immigrazione, perché dal punto di vista politico, l’“invasione” non paga. In nome di questo, si sono fatti accordi con i leader locali, spesso soggetti corrotti, privi di scrupoli, con milioni di dollari nei loro conti all’estero, che si disinteressano dei diritti umani, di solito al potere da venti, trent’anni, perché lo sport locale è cambiare le leggi per perpetrare a vita la propria leadership. E i media che fanno? Di Africa parlano sempre al negativo: un continente povero, dove le malattie imperano, le catastrofi si susseguono, poi le guerre, oggi il terrorismo… Le cause non ci riguardano. Il positivo non fa notizia. Il positivo è che l’Africa è ricca e piena di possibilità: ci sono molte risorse naturali e c’è molta forza lavoro giovane, quella che manca in Europa per esempio. Il vero problema è proprio quella sottrazione sistematica delle ricchezze fatta dalle potenze mondiali in accordo con quei leader di cui dicevamo sopra. Così le risorse da opportunità diventano maledizioni. Il Sud Sudan ha petrolio, acqua, terreni, eppure non trova pace. Il Congo è un paese ricchissimo di risorse, ma la sua popolazione è fra le più povere al mondo. Ci mancava il coltan, quel prezioso minerale che fa funzionare i nostri telefonini, e che condanna a lavorare sepolti vivi nelle miniere i bambini. Il Delta del Niger produce circa 2 milioni e mezzo di barili di petrolio al giorno, ma l’estrazione dev’essere sempre più “veloce”, allora si gioca al ribasso nei costi di gestione e di produzione, con il risultato che quell’area un tempo incontaminata, è diventata una “terra dei fuochi”. E le popolazioni bevono, cucinano e si lavano con acqua proveniente da pozzi inquinati dal benzene. E l’Africa paga anche il conto di un riscaldamento globale provocato altrove. E si potrebbe continuare a lungo. Ma torniamo al problema delle erogazioni.

Con l’Emergency Trust Fund for Africa, voluto nel 2015 dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, erano stati stanziati tre miliardi di euro per lo sviluppo sostenibile e di lungo periodo dei Paesi africani. In realtà il denaro è stato per lo più usato per porre un freno al fenomeno migratorio, cosa che, peraltro, sta già dimostrando i suoi limiti rispetto al risultato. Ma che soprattutto va ad alimentare quell’intreccio di corruzione, torture e tratta di esseri umani che è la Libia. Tra l’altro, i progetti finanziati dall’Eutf sono supervisionati da un comitato nel quale i Paesi africani fanno parte solo come osservatori, senza voce in capitolo nella pianificazione. Altro che “aiutiamo l’Africa con l’Africa”, come diceva il missionario padre Daniele Comboni, e come fa oggi la Ong padovana Cuamm-Medici con l’Africa.

In Niger, parte del budget destinato a settori come l’educazione e la sanità è stato riallocato in spese per la sicurezza, ovvero per bloccare la partenza di migranti. Così in Burkina Faso, così in Mali. L’11esimo Fondo europeo di sviluppo (Fes) stanzierà (da qui al 2002) 312 milioni di euro di aiuti al governo dell’Eritrea, nonostante il regime di Isaias Afewerki, al potere da 22 anni, abbia cancellato ogni forma di libertà, diritti civili e politici, e abbia reso l’Eritrea uno dei paesi più poveri al mondo. A dirlo sono le Nazioni Unite che, in un recente rapporto della commissione di inchiesta sui diritti umani nel Paese del Corno d’Africa, hanno definito quella messa in atto dal regime di Asmara una “repressione spietata”. Tanto che Reporter senza Frontiere ha chiesto alla Ue di condizionare gli aiuti ad un aumento delle libertà fondamentali. Secondo i dati diffusi dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), negli ultimi dieci anni più di 300mila eritrei, ovvero il 5% della popolazione, sono fuggiti dal paese. Ed erano per lo più eritrei i migranti che hanno perso la vita nel naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa. Con l’iniziativa “Processo di Khartoum”, siglata nel 2014 con i Paesi del Corno d’Africa, l’Europa ha messo a disposizione più di due miliardi di euro, di cui solo il 10% viene usato realmente per lo sviluppo. Il resto serve ad addestrare militari e poliziotti, per sorvegliare i confini.

Ancora una volta quindi il problema è di come i soldi vengono utilizzati. Mi risuonano nella mente le parole di padre Mussie Zerai, il sacerdote eritreo, che dal 2003 si adopera per salvare i profughi dalle acque del Mediterraneo e dalle maglie dei trafficanti di essere umani. « L’Africa riceve ogni anno dalla comunità internazionale aiuti per un valore di 30 miliardi di dollari, però all’Africa la stessa comunità internazionale ogni anno sottrae 190 miliardi di dollari, attraverso lo sfruttamento di giacimenti e risorse naturali. Allora è una presa in giro. Mi vuoi aiutare veramente? Tieniti i suoi 30 e lasciami i miei 190».


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