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40 anni fa le Br uccidevano il giornalista Casalegno

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Quarant’anni fa moriva Carlo Casalegno, il primo giornalista assassinato dalle Brigate rosse. Alle 13,40 del 29 novembre 1977 cessarono tredici giorni di sofferenza. Il 16 novembre all’ora di pranzo quattro giovani terroristi avevano atteso il vicedirettore della «Stampa» nell’androne di casa, in corso Re Umberto 54 a Torino. Quattro colpi di rivoltella Nagant calibro 7,62 al volto, tutti andati a segno, avevano dato agli assalitori la certezza di averlo ucciso. Alle 14,05 uno sconosciuto telefonava all’agenzia Ansa: «Qui le Brigate rosse. Abbiamo giustiziato il servo dello Stato Carlo Casalegno».

Aveva sessantun anni, era solo e disarmato. Sapendolo minacciato, ogni giorno il direttore Arrigo Levi lo accompagnava a casa con la scorta. Aveva insistito anche quel mercoledì, ma Casalegno era rimasto al giornale: doveva finire il lavoro con me, allora caposervizio della terza pagina. Insieme portammo in tipografia gli articoli da comporre, affidandoli al proto Stefano Mana. Prendemmo un caffè con lui al distributore automatico, <alla macchinetta> come piaceva dire a Casalegno. Parlammo dell’intervista che nel pomeriggio «il professore» avrebbe registrato alla Rai sul presidente Arafat in visita a Gerusalemme. Erano le 13,30 quando lo accompagnai agli ascensori.

Casalegno era per tutti «il professore» perché era stato insegnante e perché alla «Stampa» aveva portato un’intensa formazione intellettuale e morale: l’antifascismo, la resistenza, gli ideali del partito d’azione intrecciati con il pensiero gobettiano. La passione per la storia – aveva pubblicato da Einaudi un solo libro, «La regina Margherita» – sarebbe stata superata dal giornalismo. Redattore degli Esteri, stimato dal direttore Giulio De Benedetti, che gli aveva affidato le grandi firme del quotidiano, vicedirettore di Alberto Ronchey, confermato da Arrigo Levi, seguiva la politica, la cultura,  il settimanale «Tuttolibri».  Suoi temi ricorrenti negli editoriali e nella rubrica «Il nostro Stato» erano le riforme civili, la giustizia, la democrazia.

Pur sapendosi in pericolo, a fine settembre Carlo Casalegno era andato alla «tre giorni del dissenso» a Bologna, raduno degli Autonomi, dei devoti della P.38, del «partito armato» e dei suoi sostenitori (anche Dario Fo era andato a portare pubblica <solidarietà>). Voleva toccare, analizzare di persona la «miscela esplosiva» di «migliaia di giovani carichi di combattività e di rabbia (…) esaltati da utopie rivoluzionarie o incoscienti per impulsi goliardici». «Al terrorismo rosso e nero – scriveva Casalegno l’11 novembre sotto il titolo “Terrorismo e chiusura dei covi”  – si aggiunge un duplice squadrismo, di estrema destra e di estrema sinistra, che nel nostro Paese ha assunto proporzioni sconosciute nel resto dell’Occidente». Eppure si opponeva alle proposte di Leggi speciali: «Le Leggi già in vigore offrono tutti i mezzi necessari per combattere l’eversione, purché siano applicate con risolutezza e imparzialità contro tutti i violenti e i loro complici, e per tutti i reati». Quell’articolo  pubblicato dalla «Stampa»   in prima pagina costò la vita.

Considerava compito del giornalista capire e far capire. Senza odi né preconcetti. Senza toni predicatori e profetici, sempre esercitando la ragione. Fino all’ultimo furono nei suoi pensieri le riforme civili, il diritto, la scuola, la democrazia come forma di governo che non tollera la violenza e regola i conflitti sociali attraverso la discussione, il dialogo, la tolleranza.

Carlo Casalegno manca a chi ebbe la fortuna di stargli accanto. Il suo nome suscita, con nostalgie dolorose, i lieti ricordi del lavoro comune: infaticabile in redazione, nell’autunno 1975 si era gettato con entusiasmo, accanto a noi (con me erano Vittorio Messori, Mario Varca, Osvaldo Guerrieri), in quell’avventura che fu la fondazione di «Tuttolibri», il primo settimanale italiano interamente dedicato ai libri. E manca al giornalismo, che avrebbe ora più che mai bisogno di maestri. Manca la sua voce all’Italia della ragione.


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