Che il Ventunesimo secolo avrebbe avuto gli occhi a mandorla e parlato mandarino lo si sapeva da anni. Che il portentoso sviluppo della Cina avrebbe condotto il paese-continente a egemonizzare non solo l’Asia ma il dibattito politico mondiale, pure, non è una novità. Che riuscisse a trovare un timoniere all’altezza della sfida, sufficientemente abile nel difendere e rafforzare il proprio potere e nell’esporre un pensiero in grado di coniugare passato e futuro, tradizione e modernità, modello socialista e aperture al capitalismo, fino allo storico discorso di Davos dello scorso gennaio contro tutti i muri, le barriere e le forme di protezionismo, invece, non era scontato.
Ci è riuscito Xi Jinping, successore del grigio Hu Jintao e capace, nel corso del diciannovesimo congresso del partito che si è svolto a Pechino, di delineare un piano trentennale per il paese, proiettando la Cina verso il 2050 e lanciando all’Occidente una sfida che sarebbe assurdo non cogliere.
La Cina del 2017, infatti, non è più né una nazione arretrata, come è stata a lungo nel corso dei secoli precedenti, né una promessa di potenza mondiale: è una potenza globale a tutti gli effetti, al netto dei suoi limiti e delle sue non poche carenze. Ha uno sviluppo disarmonico e colmo di diseguaglianze, certo, le campagne vivono ancora in condizioni difficili, vero, ci sono sacche di povertà da eliminare, periferie da ammodernare e una lunga strada da percorrere sul delicato terreno dei diritti umani, tutto giusto; fatto sta che molto la Cina ha fatto, ad esempio, per quanto concerne il clima, che anche nelle fabbriche lo sfruttamento è destinato a diminuire e che se il timoniere dell’era digitale sarà in grado di assicurare al suo popolo il pane e le rose, saremo al cospetto di un nuovo baricentro mondiale, di un polo d’attrazione paragonabile a ciò che sono stati gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica nel corso del Ventesimo secolo.
È ancora presto per stabilire se Xi Jinping sia all’altezza dei predecessori Mao e Deng; tuttavia, bisogna prendere atto che il suo pensiero politico sarà inserito all’interno della Costituzione, un onore finora toccato solo ai due illustri predecessori, e che se il maoismo ha coinciso con la via cinese al socialismo e il denghismo con l’apertura del medesimo alle logiche del capitalismo, la visione di Xi costituisce un’oculata miscela dei due, con un capitalismo di Stato proiettato verso l’esterno.
Ciò che ha colpito maggiormente del fluviale discorso del leader cinese è stata, difatti, la sua proiezione al di là dei delicati equilibri del congresso di Pechino, come se la sua vera platea fosse l’Occidente e, in particolare, le sue cancellerie, cui è giunto forte e chiaro il messaggio che la Cina non starà a guardare e che è pienamente intenzionata ad approfittare del loro declino.
Una società dinamica, sufficientemente coesa per marciare compatta, che dal punto di vista tecnologico sta riducendo a passi da gigante il divario rispetto ai paesi del G7, che ha una popolazione superiore a quella di Europa e Stati Uniti messi insieme e che sta esercitando al meglio il ruolo di mediatore fra quei due folli di Trump e Kim Jong-un, dando vita, insieme a Putin, ad un polo del buonsenso che inevitabilmente ridefinisce gli assetti di potere planetari.
Una nuova via della seta, una potenza commerciale e un attore politico in grado di svolgere il ruolo di pivot all’interno della propria regione, una colonizzazione meno cruenta e assai più intelligente di quella che esercitarono gli europei nei confronti dell’Africa e la nascente capacità di esercitare il “soft power”: sono queste le armi cui si affida Xi Jinping per rendere la Cina una potenza egemone e il simbolo di un nuovo blocco di potere, all’interno di un mondo multipolare nel quale le due sponde dell’Atlantico hanno perso la facoltà di decidere da sole i destini dell’umanità.
La terza forza che vuol diventare prima: questo potrebbe essere lo slogan riassuntivo del pensiero di Xi, questa sarà la sua battaglia e questa è la missione cui siamo chiamati a rispondere senza isterismi di sorta, con saggezza e apertura mentale, senza illuderci che quello della tigre cinese sia un fuoco fatuo perché non lo è affatto. Di questo dovremmo occuparci, questo dovrebbe essere l’oggetto di un ampio dibattito europeo e innervare la prossima campagna elettorale continentale (primavera 2019). Al momento, ahinoi, sta prevalendo, all’opposto, la logica delle chiusure e delle piccole patrie in lotta fra loro, con il rischio che la sfida egenonica di Xi si trasformi, nell’arco di dieci anni, in un dominio globale senza contrappesi, agevolato dalla laboriosità di un popolo la cui mentalità è quella delle formiche e la cui tenacia non ha eguali altrove.
Poiché i nostri standard, sotto molti punti di vista, sono ancora i più avanzati, è un pericolo da scongiurare ad ogni costo, a patto che l’Europa ritrovi se stessa e l’America non conceda a Trump un secondo mandato.